Le radici dell’Europa


E’ da tempi ancestrali che l’uomo ha, nel suo intimo, in quel misterioso luogo che gli esperti del settore chiamano “inconscio”, il timor di Dio.
Nel lungo corso della sua evoluzione, abitante unico e discente del terzo pianeta del sistema solare, che lo riscalda come gli altri, ma che, in seguito alla mescolanza degli elementi chimici presenti, ha consentito la nascita e lo sviluppo del mondo vegetale ed animale, l’uomo è dotato di caratteristiche fisiche e chimiche, tali da consentirgli di procreare e prosperare, per la continuazione della specie, simile agli altri animali, in più dotato di intelletto.
Fra le centinaia e centinaia, fra le tante e variegate categorie di animali, l’uomo, nella sua dualità, spicca, per una sua particolare dote, nel riuscire ad adoperare, facendolo funzionare con metodo, il cervello.
Le testimonianze di resti fossili, reperiti in questi ultimi due secoli, da appassionati ricercatori, benemeriti, che prima non sarebbe stato possibile farlo, allorché il timore dell’ascendente religioso costituiva un vero e proprio tabù, ci testimonia come l’essere primitivo, fosse, ne più ne meno, che una specie di animale, dicono alcuni configurato a quattro zampe, ululante e coperto di pelo, insomma una vera e propria scimmia.
Con il passare dei millenni, mentre il sole e la luna, i pianeti e le stelle, hanno continuato ad obbedire alle leggi della natura, l’uomo assumeva la deambulazione eretta, sviluppava la capacità cranica, perdeva il folto pelo, ed alzava gli occhi, per cercare davanti e sopra lui, logici punti di riferimento; imparava ad articolare gli strani suoni che gli uscivano dalla bocca, con la quale imparò anche a sorridere, cercando vieppiù di scacciare l’atavica paura di chi, fino a quel momento, aveva avuto, dei fenomeni cui aveva assistito, una volta uscito dalle caverne.
Il mistero, ed il fascino, suscitato dai lampi e dai tuoni, durante i furiosi temporali cui a stento riusciva a trovare riparo; l’acqua che non gli dava tregua durante quei momenti; la potenza del calore vigoroso emanato dal fuoco… i venti … le tempeste, assunsero, per quelle creature primitive, un valore soprannaturale, talmente determinato ed inspiegabile, da dare origine al concetto delle varie deità, cui occorreva sacrificare ciò che si aveva di più caro, prole compresa.
Quando, in terra di Palestina, venne il momento de Verbo e della Parola, molti di quei concetti, originati dalle ataviche interpretazioni della casta sacerdotale pagana, vennero meno e gli uomini iniziarono un positivo percorso degli usi e dei costumi, con i seguaci di Pietro di Arimatea che convertivano le folle all’amore, alla sopportazione, alla tolleranza, alla giustizia terrena, specificavano, al fine di conquistare quella del padre celeste e di suo figlio Gesù Cristo.
Per la glorificazione del Signore, unico e trino, l’antica Roma dei Cesari si trasformò nella Roma dei Papi: ogni gesto, ogni pensiero, ogni opera e ogni arte, per secoli furono indirizzati al “timor” di Dio.
Nello stesso stile del vetusto mondo pagano… templi, inni, componimenti artistici di qualsivoglia genere, ebbero come epicentro ed unico obiettivo gli elementi fondativi dei quattro evangeli; ogni possibile atto di provenienza umana doveva essere compiuto solo ed esclusivamente in suo nome.
Solo e soltanto nel IX secolo D.C., alla corte di Carlomagno, i letterati e gli artisti. Gli scienziati e i dottori iniziarono a formarsi anche fuori dall’ambiente ecclesiastico, ancorché in minor numero e con scarsa prese. Il leggere e lo scrivere, l’arte di conoscere, la cultura, veniva esercitata in misura massiccia solo frequentando “l’ecclesia”. Chi osava impegnare ogni ulteriore ragionamento discostandosi dalla vita di Dio subiva l’ostracismo del clero, che poco o nessuno spazio lasciava alla credibilità di costoro.
Dopo il IX secolo e fino al periodo in cui si andò formando la corte imperiale di Federico II di Svevia, cioè tra la fine del 1.100 ed i primi del 1.200, due sono le figure di uomini particolari, che meritano di essere segnalate.

 

 

 


 

Guido Monaco d’Arezzo

Non sono trascorsi che pochi anni dalle celebrazioni del millenario della nascita di Guido, a Talla, in terra di Arezzo.
La musica è una delle espressioni più significative per l’esternazione delle capacità umane, sia in senso fisico che spirituale.
Gioia, dolore, stupore, entusiasmo, ira, amore, si possono manifestare attraverso la musica, sia attraverso la sonorità dell’aria dei nostri polmoni e delle nostre ugole, sia nell’abilità di saper usare strumenti costruiti all’uopo.
Fino ad allora i canti e i suoni dovevano essere imparati a memoria; oralmente venivano insegnati dal maestro al discepolo. Era quasi impossibile apprendere da soli una melodia sconosciuta; era dunque necessario oltre ogni dire prima ascoltarla eseguire da qualcun altro, capace. Già esistevano metodi, per aiutare la memoria dei cantori e dei suonatori, ai quali era domandata la fatica di imparare a memoria centinaia e centinai di composizioni musicali, che venivano esclusivamente tramandati, di generazione in generazione, attraverso questa unica metodologia.
Non sono certi, i dati anagrafici di Guido; quel che si conosce è che questo monaco prese i voti nel Monastero di Pomposa, vicino Ferrara, intorno al 1023. Molte sono le carte che indicano nel borgo di Talla, nel Pratomagno aretino, il paese di nascita, ma di certificati non ce ne sono.
Guido si rese conto della difficoltà di studiare a memoria tutte quelle composizioni, che venivano per lo più eseguite durante le celebrazioni liturgiche. Inizia a studiare il problema cercando e quindi trovando la soluzione.
Per chi sa di musica, sa anche che Guido in principio adoperò due tecniche: la notazione alfabetica ed il monocorde.
La notazione alfabetica fa corrispondere a ciascun suono una lettera dell’alfabeto, cosicché si può determinare, con approssimata verità, l’altezza dei suoni.
Il monocorde è, invece, uno strumento, fornito di una unica corda, sotto la quale sono scritte, in notazione alfabetica, le neonate note della scala musicale, a comunicare da “ut”.   Pizzicando la corda in corrispondenza di una di queste note si ottiene il suono che a questa corrisponde. Dotato di un monocorde, lo studente poteva imparare correttamente un canto o suonare una melodia, anche senza la presenza di un maestro.
Guido non ebbe vita facile a Pomposa, che le gelosie e le invidie del confratelli, unite all’ostracismo da sempre usato verso le innovazioni e chi le attua, non gli resero facile restarvi.
Sarà il vescovo Teodaldo, intorno al 1030, ad accoglierlo nel Palazzo vescovile, dove fece parte dei canonici della cattedrale. Teodaldo, fu un vescovo che teneva in modo particolare al potenziamento della chiesa, ed ad una riforma, rivolta a consentire ai preti una vita rivolta verso la preghiera, che fosse più attenta ai valori morali e spirituali e meno apertamente coinvolta negli interessi politici ed economici. La nuova tecnica delle note musicali, inventata da Guido, molto aiutava lui stesso, il suo vescovo e i suoi fratelli, nello studio della Bibbia, per meglio predicare ai fedeli.
Guido stesso trascrive, in apposite pergamene, i testi delle melodie e degli inni, rivolti al Signore, ai martiri e ai santi, alla sacra famiglia, ai papi e ai vescovi, servendosi del pentagramma e delle sei note musicali da lui inventate. Istruisce i “  pueri cantores” della cattedrale aretina, oggi definitivamente diroccata, quella di Colle del Pionta.  I risultati sono eccezionali; tutti restano favorevolmente incantati dalla bravura dei cantori e delle molteplici implicazioni di questo sistema di comunicazione, che, se pur sempre ideato a gloria del Signore, consentiva ai fedeli di farlo, con minor fatica, quindi con maggior entusiasmo.
E non solo alla gloria del Signore furono rivolte le rivoluzionarie impronte grafiche della musica, che ben presto i castelli risuonarono dei gorgheggi dei menestrelli rivolti alle damigelle e degli amanti fra di loro.
Attorno al 1036 Guido scrive, su sollecitazione del suo vescovo, quel Teodaldo di Arezzo, che lo ospitava e lo proteggeva, quelle note e quel pentagramma che lo renderanno famoso nel mondo dei posteri. Grazie al suo genio ed alla sua inventiva, da quel momento tutti coloro i quali si sentono attratti da questa forma d’arte nobile, potranno esprimersi senza più sottoporsi alle fatiche del mandare a memoria i testi.
Il “Micrologus” è un trattato sulle regole dell’arte musicale, il cui termine significa, letteralmente dal greco: “breve discorso”. Fino a quel momento ogni espressione musicale era stata composta per essere destinata a pochi, sì dotati, ma parimente colmi di molto fervore e scarso senso pratico.
Guido fa in modo di esporre in maniera chiara e razionale i concetti di base che ciascun musicista o cantore sarà obbligato a conoscere, per affrontare lo studio e l’esecuzione dei pezzi.
Riscontrando l’incoraggiamento del suo superiore e non più l’ostracismo dei sostenitori delle vecchie metodologie, Guido ebeb modo di migliorare anche gli strumenti didattici utili ai maestri; egli per primo riuscì a sintetizzare nuove idee, integrandole con i vecchi sistemi, riuscendo a fornire orchestranti e cantori con adeguata strumentazione, per esibirsi al meglio delle loro possibilità.
Gli antichi segni e le scritture adoperate fino a quel momento non erano mai stati precisi nell’indicare la sonorità delle note, ma pur lo erano nel saper valutare l’andamento delle varie melodie, le tante sfumature, il raggruppamento dei suoni.
In effetti Guido Monaco è passato alla storia per la genialità, attraverso la quale è riuscito a combinare la vecchia metodologia, che si basava sulle melodie e sui contralti, con la sua particolare scoperta, la quale consentiva di trascrivere, tramite semplici lettere d’alfabeto, il modo in cui i suoni potevano raggrupparsi.
I neumi, ovvero gli antichi segni, venivano collocati dentro una scrittura di righe e di spazi; una specifica lettera di alfabeto stava ad indicare a quale suono quella riga corrispondeva. In tal modo diventò possibile e molto pratico “leggere” la musica, con il tono e le modalità adeguate ad ottenere ciò che in quei fogli era espresso.
Chiave di violino, di basso, tono, semitono, sono alcune delle terminologie più tardi subentrate, grazie alle quali ci è stato consentito di affinare il metodo di Guido, che resta, comunque il creatore delle linee guida per tutti coloro che amano esprimersi attraverso la musica.
Guido ci ha lasciato ulteriori studi in questo campo, altri insegnamenti, come gli “Antifonari”, ovvero particolari libri che contengono canti liturgici, nei quali antiche melodie gregoriane sono trascritte con il nuovo metodo.
A corollario di questa opera sono arrivati a noi posteri altri suoi lavori: uno è il “Prologus in Antifhonarium”, che è dedicato alla descrizione della metodologia con righe e chiavi; il secondo, che ha la particolarità di essere stato scritto in poesia, ed è intitolato “Regular Rhythmicae”, a dimostrazione della ecletticità dell’uomo, che non è solo monaco, tratta delle possibili varianti che si possono ottenere usando la sua invenzione, non solo per glorificare il Signore, ma genericamente esprimere al meglio ogni tipo di sentimento umano, sia in positivo che in negativo.
Pregevolissima intuizione, susseguente al pentagramma, Guido Monaco la fa nel trovare soluzione all’apprendimento dei testi musicali tramite semplice lettura, applicando le medesime regole della grammatica in letteratura per riuscire a “leggere” la musica e “scriverla”, senza sobbarcarsi l’immane fatica di mandarla a memoria.
A tal fine elabora un metodo pedagogico, in cui inserisce la “solmisazione”, che è una sorta di solfeggiocantato, e la altrettanto conosciuta “mano guidoniana”, che consisteva nell’associare le note della scala alle dita di una mano, ed alle loro articolazioni.
In seguito a tutto questo il papa Giovanni XIX lo chiama a Roma, per elogiarlo, approvando i suoi metodi e la sua costanza.
Non è conosciuta, la data esatta della morte di Guido. Alcune antiche annotazioni fanno pensare ad un suo rientro al monastero di Pomposa, dopo che i confratelli ebbero riconosciuto di avergli fatto torto; altre fonti lo vogliono al monastero di Camaldoli, nell’alto Casentino di Arezzo, dove si sarebbe ritirato in preghiera, fino alla morte.
Di Guido Monaco resta a noi posteri, non solo la geniale scoperta che nel corso dei secoli ha agevolato oltre ogni dire l’abilità e la voglia di esprimersi musicalmente dei tanti poeti ed artisti del mondo occidentale prima e globale dopo; dietro le dimensioni culturali ed intellettuali di quest’uomo, che prese sì i voti, come era allora costume, quasi obbligo per l’epoca, per chi aveva estro e genialità, gli studiosi hanno sempre evidenziato una fortissima motivazione profana, di natura morale.
Ciò traspare nel coraggio e nella fermezza con cui il musico porta le sue idee, non arretrando di fronte allo scontro frontale con i detrattori.
Guido avverte come un dovere la sua missione, che nasce dalla propria coscienza, sapendo di dover operare fino in fondo, a beneficio della causa che ha scelto; utile a cantare meglio e meglio comporre, migliorando il decoro stesso dell’ecclesia, è vero, ma, soprattutto, consentendo alla gente comune di potersi con facilità esprimere, con madrigali, stornelli, sonate adatte a cerimonie lieti o tristi; insomma, Guido non ha scoperto la musica….. il suo merito è quello di averla sapientemente messa a dispostone di tutti.

 

 


 

 

Cimabue ( Cenni di Pepo)

Cenni di Pepo è il vero nome del pittore fiorentino universalmente oggi conosciuto come Cimabue.
E’ nato a Firenze nel 1240.
Quasi nulla si conosce della sua giovinezza. Si inizia a parlare di lui per l’abilità e le particolari doti innate, durante la sua formazione, avvenuta in botteghe legate al classicismo bizantino. La forte influenza esercitata dalal Roma dei Papi continuava in quel periodo ad essere arbitra, se non unica interprete, dei modi e delle maniere utili alla celebrazioni della cristianità, anche se, con Federo II e gli altri sovrani, la lotta per il predominio fra tiara e corona, aveva continuato senza esclusione di colpi, e Firenze, città ricca e potente, risentiva di quella atmosfera.
Cimabue si fece conoscere per l’abilità, particolare, di saper imprimere nei suoi lavori particolari del mondo reale, non solo nella raffigurazione dei personaggi minori, santi, martiri, sacerdoti e dignitari, no, egli volle e seppe rappresentare anche la “personificazione” del Figlio e dello Spirito santo, nonché del Signore Iddio.
Ad Arezzo, nutrite folle di turisti, ammirano da secoli il dipinto del Crocefisso. I particolari anatomici, la muscolatura, la proporzione delle misure, le espressioni del corpo, sofferente, dell’uomo, inchiodato sulla croce….. danno una drammaticità alla visone del superbo dipinto molto terrena, senza nulla togliere alal sacralità ed alla devozione, che tuttora traspare, da quel capolavoro, di carattere universale.
Attorno al 1270 Cimabue dipinse “La maestà”, che oggi si trova esposta al Louvre; nel dipinto impegna tutto il suo estro creativo, rappresentando la Madonna con tutte le sue carnali attitudini femminili, ancorché ricolme della Grazia, in quanto appare più che sospesa, anzi, seduta sul trono, avvolta in una tunica a pieghe sottili.
Nella Basilica di Assisi Cimabue dipinse, era il 1280, gli affreschi delle volte e delle sotto volte, oltre al coro. Gli evangelisti, storie della Vergine, scene dell’apocalisse, giudizio e crocifissione di Gesù, Storie di san Pietro, sono i titoli delle opere che si possono ammirare nella Basilica.
Questi capolavori, dipinti assieme all’affresco di San Francesco e gli Angeli, che si trova nella Cappella Inferiore, colpiscono da secoli le folle dei fedeli in preghiera, certamente per la sacralità degli eventi e per le esigenze dettate dalla fede, ma pure per l’aspetto umano e tipicamente corporale delle figure.
E’ dunque grande merito di questo artista l’aver saputo dare ai personaggi rappresentati, una intensa forza espressiva, pregna di valore drammatico e fisico, concetto completamente nuovo, e pure azzardato, in quei tempi.
I colori, le proporzioni, gli atteggiamenti, i particolari anatomici, come il rilievo delle vene sulla pelle o la muscolatura maschile. Hanno reso Cimabue un precursore, capace di saper esprimersi e di rappresentare toni della pittura, non soltanto catartici.
Altro capolavoro lasciatoci da Cimabue è “La Santa Trinità”, che può oggi essere ammirata a Firenze. Altre opere si trovano conservate a Bologna e a Pisa.
Cimabue morì a Pisa, nel 1302.

 

 


 

Cosa c’è dietro le colonne d’Ercole?


Tutti coloro che si sono, ed ancor oggi si occupano,professionalmente o per puro piacere, della Storia e della Letteratura classiche, sono d’accordo nel ritenere che il periodo compreso tra il XIII e il XVI secolo D.C., nella penisola italiana, nel continente europeo d’occidente, nell’Asia minore e nelel coste settentrionali dell’Africa, sia stato uno dei più fecondi, per il progresso dell’umanità di quel mondo allora conosciuto, al quale arrivavano anche informazioni e notizie delle civiltà orientali, dall’India, dalla Cina e dal Giappone.
Cristiani cattolici romani, bizantini, musulmani ed ebrei, erano le etnie più numerose, e tutte queste culture, unanimi nel riconoscere nel monoteismo la verità di un solo Dio, uscivano dal medio evo barbaro ed ignorante, iniziando ad acquistare una diversa, anche se indistinta, conoscenza di se, dei rapporti dell’uomo con la natura, dei problemi concreti che si presentano durante l’esistenza terrena.
Avvenne una sorta di rigenerazione politica e civile che, senza rinnegare l’esistenza di Dio, concentrò di più la mente e la forza dell’uomo, verso la risoluzione dei suoi problemi, cessando di tenere l’attenzione solo ed esclusivamente rivolta alla venerazione divina, tentando di meglio organizzarsi per migliorarsi l’esistenza.
Intanto, si faceva strada nel campo politico, il concetto della autonomia dello Stato, che si manifestò con il sorgere di signorie, califfati, con città ricche e ben fortificate.
L’intelletto, il pensiero,non volle più essere soggetto ad una sola verità, per quanto autorevole e venerabile essa fosse.
Mentre ancora, come sempre con la forza delle armi, le varie fazioni di potere, sacro e profano, continuavano aspramente ad affondarsi, come avvenne all’epoca della corte di Carlomagno ad Aquisgrana,  anche in quel periodo i cattolici di osservanza romana e bizantina, gli ebrei ed i musulmani che vissero alla corte di Federico II di Svevia, siano essi stati servi, vassalli o sapienti, mecenatescamente accolti nelle accoglienti stanze dei castelli europei, si osservavano vicendevolmente. La musica salmodiata degli uni con i ritmi cadenzati degli altri, la poesia di Orlando con i racconti delle traversate dei deserti africani, i tappeti volanti degli uomini d’oriente e le scope cavalcate da demoniache streghe dell’occidente, uscivano dalla fantasia creativa dei castellani,  sempre al crepuscolo, subito dopo lauti banchetti. 
Lo studio della matematica, dell’astronomia, della filosofia, della chimica, e delle arti, oltre alle discipline umanistiche, occupava le giornate di tante persone, uomini e donne, dei castelli prima e delle città poi. Oltre al lavoro e al sonno non dedicarono più il resto della loro attenzione solo alla gloria ed alla magnificenza dell’onnipotente, la cui essenza non veniva certo obnubilata.
L’umanità iniziò decisamente il suo cammino verso il progresso, affrancandosi pian piano, almeno per i bianchi europei, dal predominio della autorità religiosa.
Ciò che è umano viene posto al centro, adeguato riferimento a qualsiasi genere di indagine introspettiva, basata sull’istinto della curiosità, sulla ricerca dei tanti perché.
Il mondo dello spirito ed il mondo della materia acquistano pari dignità, anche se in Europa, spesso, torneranno a scontrarsi, rallentando il naturale processo di miglioramento delle condizioni sociali, che ai vertici assume il significato di lotta per il potere.

 

 


 

Giovanni Pico “della Mirandola”

“Quante molestie, ansie, affanni si trovino per ottenere il favore dei principi, per conciliarsi la benevolenza dei pari, per andare a caccia di onori; cose son queste che io meglio posso imparare da te che non insegnarti, io che fin da ragazzo ho appreso a vivere contento dei miei libri, del mio riposo e, standomene appartato, non sospiro e non cerco, fuori di me”.
Giovanni Pico “della Mirandola”  (1463 – 1494), scrive queste righe in una lettera al nipote Gianfrancesco, rendendo, in modo mirabile, piena conoscenza dello stato d’animo di un letterato di quei tempi.
Brevissimo, l’arco temporale della sua esistenza, anche se, certo, l’età media di vita di quel periodo non era certo elevata; tuttavia immortale la memoria lasciata ai posteri, anche solo considerando l’anedottica circolante tutt’oggi della sua prodigiosa memoria. Giovanni Pico è considerato un autore minore, dagli estensori della letteratura che conta, nell’eccelso girone della cultura italiana e europea.
Eppure la figura di questo letterato, presto e bene si impose all’attenzione del mondo accademico di allora, se è vero che poco prima del parto, sul letto della madre, fu visto un cerchio di fuoco, svanito quando Giovanni venne alla luce.
Chi ha immortalato l’evento ha lasciato scritto: “ forse per insinuarci che, per perfezione d’intelletto, sarebbe stato somigliantissimo alla figura orbicolare colui che in quella stessa ora nascesse tra i mortali, degno di essere celebrato per l’eccellenza della sua fama, in tutto il globo terrestre”.
Il giovane Pico non si adatta all’uso delle armi o alla amministrazione dello stato, come, magari, vorrebbe la famiglia; per cui egli si reca aBologna, per studiare Diritto.
Da Bologna, dove resta, dal 1477 al 1478, Pico si reca a Ferrara, accettando l’invito del duca d’Este, di trasferirsi alla sua corte, come precettore.
La città di Ferrara, nella quale la famiglia d?este esercita una signoria illuminata, è, culturalmente, molto vivace, con personaggi le cui opere sono arrivate sino a noi.
Successivamente, il rampollo della famiglia Pico, si trasferisce a Padova, sede di una prestigiosa Università.
In quella scuola Pico della Mirandola perfeziona gli studi filosofici su Aristotele e Averroè, studioso e scienziato considerato un particolarissimo interprete della filosofia aristotelica.
Grazie ad uno dei suoi maestri patavini, Pico studia e traduce  dall’ebraico al latino, all’italiano, testi fondamentali ed importanti, proseguendo il suo destino di viaggiatore, di città in città.
Nel 1482 da Padova si reca a Pavia, dove approfondisce gli studi della lingua greca ed inizia quelli che lo renderanno maggiormente famoso: la filosofia e la logica, in matematica.
Nel 1484 si stabilisce a Firenze, dove stringe amicizia con Angelo Poliziano e Marsilio Ficino.
Nel particolare ambiente fiorentino, ricco di talenti di ogni genere e di maestri di rilevata importanza, Pico della Mirandola concretizza al meglio la sua formazione umanistica scrivendo: “ In Platone ritrovo due cose. Una omerica eloquenza che si eleva su ogni altra espressione prosaica ed una somiglianza di pensiero con Aristotele, specie se il confronto viene fatto da un più elevato punto di vista. Infatti, se ci si ferma alle parole, tra i due non vi è nulla di più contrario; ma se si va al senso,  ci si accorge che nulla vi è di più affine, tra i loro pensieri”.
Un altro importante punto di vista è attribuito a Pico della Mirandola.
Egli sostiene, difendendo con forza questa sua affermazione, che il valore delle elaborazioni filosofiche speculative resta solido e intatto, anche se è espresso con linguaggio poco raffinato; mentre non vi è verità o ragione, ancorché espresse con eloquio elegante e stilisticamente ineccepibile, che possa avvicinarsi al perfetto, completando il concetto “cusaniano” della “dotta ignoranza”.
Subito dopo il periodo fiorentino il filosofo e matematico mirandolese soggiornò a Parigi, dove ebbe la possibilità di partecipare alle lezioni in Sorbona e di approfondire gli studi sull’averroismo.

 

 


 

Abu I . Walid Muhammad ibn Ahamad Muhammad ibn Rushd,

 

Eera nato a Cordova, nel 1126.
Come tutti i bimbi nati nella cerchia della nobiltà dei mori spagnoli, anche Averroè ( nome con cui venne affermandosi da adulto) iniziò ad apprendere la scrittura e la lettura con i tradizionali racconti attribuiti a Maometto; proseguì, quindi, con la giurisprudenza e la teologia.
Divenne medico, giurista e filosofo.  Scrisse  una serie di commenti sulle opere di Aristotele, una serie di libri di medicina ed alcuni trattati di filosofia.
Tra i suoi scritti di filosofia si ritiene importante citare: “L’incoerenza dell’incoerenza”, nel quale difende il pensiero di Aristotele e la filosofia in generale. La tesi del filosofo arabo era basata sul fatto, anzi la convinzione, che la verità può essere raggiunta, sia attraverso la religione rivelata, sia attraverso la filosofia speculativa.
Il punto di forza del pensiero di Averroè si basa sulla convinzione che tra religione e filosofia non vi è alcuna conflittualità, in quanto le eventuali divergenze sono riconducibili solo alle differenze d’interpretazione. Egli sosteneva che le due discipline perseguono due strade, per raggiungere una simile verità: quella religiosa si basa sulla fede, non può essere discussa e non richiede una particolare preparazione per capirla, mentre quella filosofica è riservata solo ad una stretta cerchia di illuminati intellettuali, capaci di approfondire concetti complicati.
A causa di questa rigida interpretazione filosofica, in netto contrasto con le predicazioni dei notabili religiosi arabi spagnoli, fu tenuto sotto stretto controllo fino alla morte, che avvenne a Marrakesh il 10 dicembre del 1198.

Tornato in patri, Pico della Mirandola, intensifica lo studio dell’ebraico e dei testi cabalistici.
Successivamente pensa di organizzare a Roma un convegno di sapienti, riuniti nella caput mundi, per discutere sui diversi argomenti e teorie del sapere.
Nelle vicinanze di Arezzo a causa di una congiura venne arrestao ed incolpato di nefandezze, per l’epoca pagate anche con la morte. Solo l’intervento di alcuni suoi protettori, patrizi fiorentini, estensi e patavini, venne quasi subito rilasciato, riuscendo a raggiungere Perugia.
Dietro a questa vicenda la storia parla di un maldestro tentativo di fermarlo, per mano di certe ombre potenti della chiesa romana.
Affatto domo, Pico inizia a far circolare a Roma, poco prima del Natale del 1486, gli inviti alla “pubblica disputa”, da effettuarsi a partire dal febbraio dell’anno successivo.
Trova le risorse per dare alle stampe un testo, dal titolo enciclopedico, “ Le novecento tesi, ovvero le proposizioni dialettiche, morali, fisiche, matematiche, teologiche, magiche e cabalistiche, dei tanti sapienti ed eruditi conosciuti dell’epoca, siano essi caldei, arabi, ebrei, egizi o latini”.
Nelle intenzioni di Pico della Mirandola il dibattito sarebbe dovuto essere preceduto da un discorso introduttivo, testo che è giunto fino a noi con il titolo: “ Oratio de hominis digitate”.
In Roma, papalina in ogni stra, in ogni piazza, in ogni vicolo, si sollevarono critiche, obiezioni che dettero forma a vere e proprie accuse. Una apposita commissione talare, direttamente nominata da Innocenzo VIII, giudicò alcune delle tesi pubblicate da Pico addirittura eretiche, giudicandone altre inconsistenti se non infondate, financo offensive per la chiesa cattolica.
In soli venti giorni Pico scrisse una “Apologia” cui affidò di dimostrare la validità delle sue tesi, che voleva soltanto porre in disputa, quindi aprire un confronto con gli altri modi d’essere. Fa appena in tempo ad allontanarsi da Roma che Innocenzo VIII ne ordina l’arresto.
A Lione il principe Filippo di Savoia lo fa arrestare; viene ancora una volta mandato libero, grazie all’intervento di un suo mecenate ed estimatore, Lorenzo de Medici.
Nel 1488 Pico della Mirandola si stabilisce a Fiesole. E’ molto turbato, causa la condanna di eresia che la chiesa ha emesso contro di lui.
Volume pregevole, per la lettura e per il contenuto, è “L’Heptaplus”, che pico scrive, nel periodo più intenso dei suoi studi  telologici, con l’animo triste di chi sa di essere ingiustamente perseguitato.
Trattasi di un validissimo ed utile  commento, in chiave allegorica, quindi privo di accenni alla sacralità, dei versetti della genesi, rivenienti dalla tradizione popolare antica ed agricola.
Del 1492 è l’opera “ De Ente et Uno”. Con questo testo il filosofo, teologo e matematico, inviso e perseguitato dalla chiesa,  si propone di conciliare la filosofia di Platone con quella di Aristotele, riuscendo a dimostrare la continuità, insita nei ragionamenti del primo ed in quelli del secondo, anticipando, anche se inconsciamente, tante visioni filosofiche dell’oggi moderno ed illuminista.
Papa Alessandro VI, succeduto a Innocenzo VIII emette il “Breve”, edito con il quale Pico della Mirandola viene scagionato dalle accuse mossegli, così sofferte e pericolose, cui era stato oggetto, costringendo questo importantissimo studioso e poco apprezzato studioso, un senso profondo di solitudine e di sconforto, mitigato solo dagli studi e dalla passione per le antiche dottrine.
I primi giorni di novembre del 1494 Pico inizia ad avvertire forti dolori addominali. Si trova ancora nel convento in cui si è ritirato per meditare e pregare. Il giorno lunedì 17 di quello stesso mese muore in circostanze oscure, tali da far supporre un avvelenamento, che, se realmente avvenuto, innalza ancor di più l’esigenza di ricordarlo, come eroe e martire, fatto uccidere da un potere, non tanto oscuro ed alquanto impaurito.

 

 


 

L’Umanesimo


E’ stato in “cotal guisa” denominato da tutti gli studiosi, in ogni ordine e grado, il periodo che va dalla fine del 1100 a tutto il XV secolo dopo Cristo; territorialmente, e geograficamente, circoscritto in tutta la parte d’ Europa sottoposta al papa di Roma e in gran misura dagli eredi capetingi del sacro romano impero d’occidente.
Umanesimo, perché la sacralità delle icone, retaggio della ortodossia bizantina, inizia a venir meno, con l’espressione delle arti, da quel momento fondata sullo studio e l’esperienza, con un numero sempre più elevato di persone, provenienti dai più svariati ceti sociali, dal principe al vassallo, dal servo al possidente, dai membri del clero al figlio dell’artigiano, del militare o del cittadino dei nascenti Comuni, che si avvicinò a praticare le arti, identificate dagli studiosi in due branchie.
Sussistono, invero, le “arti meccaniche” ( sacrali) che sono quelle che consentono l’applicazione dello spirito e dell’intelletto.
E’ fin dagli albori delle memorie storiche che fu dato al termine “arte”, in greco “tekne” il significato del risultato dell’opera dei fabbri, dei falegnami, degli agricoltori e dei muratori, assieme a tutte quelle attività richiedenti tecnica, perizia, manualità operativa, come la scultura e la pittura.
Risale al periodo medioevale la catalogazione di materie come grammatica, retorica e dialettica, come “arti da trivio”, mentre aritmetica, geometria, musica e astronomia, vengono nominate “arti del quadrivio”. Tutte queste materie, soggette all’insegnamento di sapienti maestri, erano chiamate arti liberali.
Le arti meccaniche, o servili, erano quelle, attraverso le quali, l’opera dell’autore scaturisce attraverso l’attività manuale. In sostanza trattatasi delle opere dell’ingegno umano, che richiedevano fatica fisica, più che intelletto.
Fioriscono, sul finire del XIII secolo, botteghe e cantieri, dove maestri provetti insegnano “il mestiere” a giovinetti, dotati e volenterosi di imparare.    
Col passare del tempo gli eruditi dell’epoca effettueranno vere e proprie classifiche, determinando così la supremazia di alcune forme di espressione a scapito di altre, distinguendo arti maggiori da arti minori, sino ad arrivare, con la definizione di “ arti belle” a rubricare discipline come la scultura, la pittura, la musica, la poesia, a scapito delle “arti artigianali” meno belle, quali escono dalle botteghe dei fabbri, dei falegnami o dalla cazzuola del muratore.
Di quel tempo i libri scolastici, sui quali generazioni di studenti hanno piegato la schiena, forniscono date e circostanze, accumunate a luoghi e denominazioni, di eventi storici, rilevanti per l’apprendimento, a fine erudizione, delle generazioni future.
Questo trattato rimanda il lettore a quei testi, qualora la curiosità lo spingesse ad indagare più diffusamente sul periodo conosciuto come Umanesimo, che l’intento nostro è quello, non di fare l’ennesima agiografia di persone o di fatti, ormai da secoli tramandati come essenziali ed indispensabili per la cultura, a tutela ed onore di un certo modo di gestire il potere dominante, ma di approfondire, tramite una ricerca onesta ed il più possibile obiettiva, il tema politico dell’Europa moderna, il filo logico da seguire, per arrivare alla compilazione della Carta Costituzionale dell’Europa Unita, non più raffazzonando brani e pezzetti delle epoche predominanti, ne tanto meno mettendo in prima ed in seconda fila quel particolare modo di essere anziché un altro, ma andando a reperire eventi e nominativi, italiani, per il nostro specifico, che alla causa dell’unificazione europea hanno saputo portare motivazioni valide e condivisibili.
Il movimento culturale noto come Umanesimo, dunque, si andò formando, in quegli anni, nel territorio della penisola a sud dell’arco alpino, dalle alture trentine all’isola siciliana, diffondendosi in tutto il continente europeo definito, ad ovest del Danubio fino alle coste atlantiche del Portogallo, fino al mare del Nord, inclusa la penisola scandinava, il territorio danese e le isole di Irlanda e Inghilterra.
Sommariamente, l’abitante di questi territori, esce dal profondo buio del basso medio evo, durante il quale sua unica preoccupazione era stata solo quella di sopravvivere, privo delle più elementari ambizioni e delle più semplici  tra le curiosità; era transitato attraverso il percorso della vita terrena, vivendola in preghiera e mansuetudine, alimentando la speranza promessa di una vita migliore nell’aldilà.
La cultura greca e quella latina non erano state dimenticate; il retaggio di poche ed illuminate persone, moltissime delle quali vestivano l’abito sacerdotale. Quelle testimonianze di vita alimentavano il nascente riscatto delle popolazioni europee.
In Italia, soprattutto, lo sviluppo economico commerciale di città come Firenze, Venezia, Palermo, Bologna, Pisa, Genova e Napoli aveva favorito il processo di arricchimento, non solo finanziario, ma anche della cultura.
Anche nelle corti di re e imperatori si avvertiva il bisogno di ritrovare, attraverso Platone e Aristotele, Orazio ed Ovidio, le radici laiche. Persino qualche papa aveva favorito in tal senso studi e ricerche.
In lotta fra loro per la gestione del potere temporale, papi, re e comuni, tra uno spargimento di sangue ed una conquista, tra la perdita del potere ed un esilio, inconsciamente seguivano l’evolversi di un comune destino.
Nascevano, e si consolidavano,  nuovi fenomeni sociali. Venivano a sorgere nuove esigenze e le domande,  a cui si iniziavano a trovare risposte, erano classiche: “Chi siamo?”, “Da dove veniamo?”, “Dove vogliamo e dobbiamo andare?”.
Sul piano politico emergono nuovi soggetti ( capitani del popolo, magistrati, bargelli), su quello economico nuove professioni ( navigatori, banchieri); la religione cattolica avverte salutari modifiche comportamentali e di potere, come la conversione di Francesco d’Assisi.
“Humanitas” e “Divinitas” sono le primissime distinzioni, che all’epoca non potevano certo essere codificate ( ciò avverrà molto più tardi, almeno intorno al XIX secolo). Le due branchie saranno ancor meglio specifiche nell’Italia centrale ed in Firenze, con la nascita delle due fazioni storiche dei guelfi e dei ghibellini.  
Secondo una testimonianza lasciataci in un suo scritto, Francesco Tetrarca intendeva per “Humanitas” l’espressione che scaturiva dall’esigenza, innata nell’uomo, di rinascere e, quindi, riabilitarsi, trasformano gli errori commessi ed anche gli atti positivi in “esperienza”; utile, al pari dell’insegnamento e dello studio, alla proiezione verso il miglioramento, che accompagnava
l’ inconscia esigenza del sapere chi siamo e da dove veniamo.
L’uomo, operando, crea, nell’ambito mondano e civile, per affinare la strada alle sue future generazioni, nel pieno rispetto delle regole, non solo religiose, ma anche civile ed etiche, quindi, prosaicamente, laiche.
Molti erano già coloro che promuovevano la supremazia dell’organizzazione sociale  alle necessita di una redenzione postuma, quindi, prima lo stato e poi la chiesa, il “cives” più importante del “fides”.
In quel epoca di “nuova luce” i più restii a comprendere restarono i religiosi, i quali da tempo immemorabile avevano assunto il predominio sulla gestione delle regole sociali e del comportamento umano; non sopportavano il revisionismo, favorevole ai fondamenti civici. Il “cives” mal sopportò il giogo delle comunità confessionali, che volevano ancora imporre, volendolo fare con ogni mezzo, solo ed esclusivamente la loro interpretazione, su testi da loro scelti, e basta.
In sintesi, se nella pittura o nella scultura, le raffigurazioni dell’arte sacra perdono, durante il periodo dell’Umanesimo, l’aureola della sacralità, ed anche il figlio di Dio viene rappresentato Uomo, con tutte le specifiche caratteristiche della sofferenza, quando viene rappresentato sulla croce, o della beatitudine, quando è rappresentato nella resurrezione, così come nella musica, nella letteratura ed ogni altra forma espressiva, gli eruditi, sia appartenenti al ceto religioso, o provenienti dalle altre classi sociali, iniziano un cammino verso quel movimento letterario, artistico, religioso e sociale che, anche ai giorni nostri, provoca profonde divergenze.
Ci sono stati uomini di chiesa di ogni rango, compreso tanti papi, che hanno definito la cultura, e quindi anche la ricerca, un insieme di attività e di esperienze  attraverso le quali l’uomo affina e sviluppa le molteplici capacità del suo spirito e del suo corpo, al fine di venire a capo, se non riuscire a controllare, ciò che si trova a lui d’attorno, grazie al suo lavoro in seguito al quale acquisisce conoscenza. Tuttavia, negli stessi ambienti curiali, più volte si è tenuto a precisare che la spiritualizzazione e l’umanizzazione della natura sono i limiti del volere divino, oltre i quali l’uomo non deve andare, perché mai potrà raggiungere la perfezione divina.
Con l’Umanesimo prima, ed il Rinascimento poi, l’uomo prende coscienza che il sapere, cioè la cultura, è alla stregua di un bene capitale, ancorché simbolico. Nel corso dei secoli i suoi antenati lo hanno accantonato come bene prezioso, utile allo sviluppo delle genti, al loro progredire, per il miglior vivere della famiglia umana, con la massima aspirazione alla pace e alla serenità.
La cultura, pur essendo espressa al singolare ed al genere femminile, è indiscutibilmente plurale; essa è il retaggio passato, presente e futuro, dei singoli, che, vivendo e creando dentro una comunità, porta l’impronta, non solo del tempo, ma, anche,  del luogo e delle abitudini, di quella comunità.
L’artista diventa tale per estro, che in lui nasce in quanto naturale, con la possibilità di affinarsi e, quindi, migliorare, grazie alle sue specifiche e peculiari capacità, vuoi individuali che collettive.
Pur vivendo nella medesima società, spesso accade che le culture possono essere diverse, per cui nascono conflitti di ogni tipo, scaturiti per far prevalere l’una anziché un’altra.
Si tratta di una seri di metodologie legate all’insegnamento e all’apprendimento, a volte predisposte, curate e classificate, da una classe dominante; oppure sorte per volontà di singoli, giunte ad affrontarsi, sovente, dietro pagamenti di pesanti tributi e sacrifici.

 


 

Marsilio Ficino

È nato a Figline Valdarno, nella provincia fiorentina, nel 1433.
Figlio del medico personale di Cosimo il Vecchio, della famiglia Medici, ebbe modo di essere istruito da pedagogisti cui va attribuito il merito di avergli fatto conoscere testi e trattati della  Grecia antica, attraverso i quali il giovinetto si appassionò agli scritti di Platone e di Aristotele, diventando uno tra i maggiori pensatori di letteratura e di filosofia di quel tempo.
Chiamato alla corte dei Medici dallo stesso Cosimo, Marsilio Ficino fondò a Firenze l’Accademia Platonica, formando una nutrita classe di giovani studenti, ai quali egli insegnò, come principale dei compiti, le opere di Platone e della di lui scuola.
Altro compito assai curato da Marsilio Ficino fu quello di promuovere la diffusione di quei testi attraverso la traduzione dal greco al latino, se non, addirittura, in italiano volgare, lingua che ormai si andava radicando anche tra gli eruditi, in primo luogo grazie alla genialità di Dante Alighieri.
Tra le sue più conosciute opere giova ricordare il “De voluptate”, nella quale egli ragiona, appunto, sulla volontà, la peluciale caratteristica, innata nell’ uomo, attraverso la quale egli può spingersi a trovare le più variegate risposte ai tanti perché della vita.
La “teologia platonica”, testo in cui sono bene individuate le motivazioni che fanno scaturire i ragionamenti sull’uomo, il suo vissuto e gli elementi che lo attorniano, sia positivi che negativi. Nel “liber de vita” Ficino raccoglie le considerazioni scaturite dai suoi ragionamenti sulle vicende e sui conseguenti atteggiamenti, nel corso del tempo assunti dalle popolazioni europee e che ne costituiscono la storia.
Nel 1473 prese i voti e, da sacerdote, cercò con successo di continuare i suoi studi su Platone e la sua scuola, riuscendo a propugnare l’idea, progressista ma affatto trasgressiva, evolutiva e non fuorviante, di un Dio, unico e trino, onnipotente ed infinito, non tanto da temere o da sopportare, quando da capire e lodare, anche attraverso le interpretazioni pagane.
Sostenne, convinto, l’esistenza di una gerarchia, solo terrena e storicamente provata, lasciando intendere le leggende solo per il valore simbolico che queste hanno.
Per farsi intendere al meglio Ficino suddivise il suo pensiero, ed il mondo che lo avvolgeva, in cinque branche; quel mondo, piccolo e conosciuto, che solo di lì a poco la svolta della scoperte di nuove terre ne avrebbe assai ampliato gli orizzonti.
Cinque, comparti che lui chiamò: ”sostanze”.
Il termine usato da Marsilio Ficino aveva un significato filosofico molto più esteso di quello che oggi si può intendere, in quanto, al concreto e solido concetto della materia, per lui andava compreso anche l’ampiezza del sovrannaturale.
Da lì l’enunciazione delle cinque unità: Dio, Angeli, Anima razionale, Qualità, Corpo.
Secondi gli intensi ragionamenti di Marsilio Ficino, l’anima è il fulcro del mondo, così, come lo si concepiva allora; è l’elemento decisivo per la dignità della persona; è questa, per ogni creatura umana, l’unico e fondamentale motivo, principio e fine della sua vita, ma anche del circondario che gli è vicino, fino a comprendere l’intero universo.
Il pensiero, che, sempre e comunque va attivato, per le risposte da trovare alle tante domande, è da considerarsi, secondo Ficino, fulcro di ogni sentimento, buono o cattivo che sia, dall’amore alla vendetta.
L’anima è compenetrante, al pensiero; entrambe sono il centro della realtà.
Così, come le azioni dell’uomo scaturiscono da queste due componenti, arrivare a conoscere Dio, significa, secondo Ficino, usare intelletto e volontà,  desiderio e  raziocinio, il tutto racchiuso nell’unico sentimento di amore verso il divino.
Marsilio Ficino studiò profondamente quanto lasciato scritto da Ermete Trismegisto, letterato e filosofo concretista di un lontano passato. Vissuto nel II secolo d.C., aveva trovato in Ipazia di Alessandria la più convinta delle divulgatrici. Questa fu fatta uccidere da un ecclesiastico di rango, per le ardite teorie terrene e poco religiose, tre secoli dopo Ermete Trismegisto.

 


 

Ipazia   ( 370 – 415 d.C.)

Figlia di Teone, geometra e filosofo, oltre che direttore del Museo di Alessandria, deve la sua notorietà agli scritti e gli studi che sono stati tramandati fino a noi direttamente, pochi direttamente, moltissimi per citazione indiretta da parte di altri sapienti, nel campo della matematica, dell’astronomia e della filosofia, per la quale fu particolarmente portata, seguendo le teorie di Platone.
Non era convertita al cristianesimo, restando pagana. Ad Alessandria d’Egitto la convivenza era abbastanza possibile, grazie all’alto grado raggiunto dalla civiltà egiziana in cultura.
Soltanto verso la fine del quarto secolo, sotto il regno dell’imperatore Teodosio, la campagna anti pagana si intensificò.  Il tempio di Scrapide, una sorta di divinità che riuniva in se i culti di Zeus e Osiride, venne posto sotto assedio da parte dei cristiani. LO stesso vescovo Teofilo, volle dare il primo colpo di piccone alla costruzione, che venne demolita.
Nello stesso periodo venne data alle fiamme la prestigiosa biblioteca, presso la quale erano custoditi migliaia e migliaia di testi, documenti delle preesistenti civiltà, che andarono irrimediabilmente perduti.
Nel 412, al vescovo Teofilo, successe, nella carica, il nipote Cirillo, che lascò continuare le malversazioni rivolte al mondo non cristiano.
Nella primavera del 415 un manipolo di cristiani riesce a catturare Ipazia, sul ciglio della strada, mentre, di sera, stava rientrando a casa dal suo ateneo.
Prima la colpirono duramente a colpi di bastoni, poi la trascinarono dentro una chiesa, luogo dove il suo corpo venne fatto a pezzi e i poveri resti bruciati.
In seguito a questo brutale evento, i seguaci di Ipazia e tutti gli uomini di cultura non cristiani, fino ad allora in maggioranza, abbandonarono Alessandria d’Egitto, che perse il primato di faro della cultura.
Poche sono le donne che hanno avuto la possibilità di distinguersi, nelle lettere, nelle arti, nelle scienze, sia nel mondo occidentale che nelel culture greche e latine. Molte hanno, addirittura, pagato con la  vita questo particolare tipo di impegni; il pensiero che una donna potesse emergere, in un mondo dominato dal sesso forte, nei campi di suo esclusivo dominio, era considerata una vera e propria colpa. Spesso, quando questyo accadeva, la donna era considerata una presuntuosa e relegata negli angoli più insignificanti.
Il primo trattato, nel quale è documentato il contributo di Ipazia, è un’opera firmata da Teone, dal titolo: “ Commento di Teone d’Alessandria al terzo libro del sistema matematico di Tolomeo. L’edizione è curata da Ipazia, mia figlia”.
Lo storico Filostorgio la ricorda come studiosa ed insegnante; questi, assieme ad altri cronisti dell’epoca, riporta numerose altre sue opere, oggi andate perdute.
L’astronomia era la materia che di più impegnava questa valente studiosa, il cui torto fusolo quello di essere rimasta pagana. Molte sono le interessanti scoperte da lei fatte sul moto degli astri, tuttora valide.
Su di lei, un’anomima poetessa scrisse questa ode:
“ Quando ti vedo mi prostro, davanti a te ed alle tue parole
Vedendo la casa astrale della vergine,
infatti, verso il cielo è rivolto ogni tuo atto.
Ipazia sacra, bellezza delle parole,
astro incontaminato della sapiente cultura”.
La scienziata di Alessandria al momento dell’aggressione avava in animo di tracciare per i discepoli una nuova traettoria, seguendo la quale, questi, potessero imparare, senza la mediazione del potere ecclesiastico, ad orientarsi sulla terra, dentro se stessi, e verso la volta celeste,  con il rigore proprio della geometria…. e quindi della ragion pura. 


Il compendio dei concetti, contenuti nelle opere di Marsilio Ficino, si ha nel trattato: ”Teologia platonica sull’immortalità dell’anima”.
In questo trattato, Ficino, che morirà a Firenze nel 1499, considera il platonismo una filosofia teologica razionale, in perfetta armonia con quelle, da lui e da tutti i credenti, considerate le verità del cristianesimo. 

Renato Traquandi     Zenit di Arezzo  anno  7012

Cimabue ( Cenni di Pepo) Cenni di Pepo è il vero nome del pittore fiorentino universalmente oggi conosciuto come Cimabue.

E’ nato a Firenze nel 1240.

Quasi nulla si conosce della sua giovinezza. Si inizia a parlare di lui per l’abilità e le particolari doti innate, durante la sua formazione, avvenuta in botteghe legate al classicismo bizantino. La forte influenza esercitata dalal Roma dei Papi continuava in quel periodo ad essere arbitra, se non unica interprete, dei modi e delle maniere utili alla celebrazioni della cristianità, anche se, con Federo II e gli altri sovrani, la lotta per il predominio fra tiara e corona, aveva continuato senza esclusione di colpi, e Firenze, città ricca e potente, risentiva di quella atmosfera.

Cimabue si fece conoscere per l’abilità, particolare, di saper imprimere nei suoi lavori particolari del mondo reale, non solo nella raffigurazione dei personaggi minori, santi, martiri, sacerdoti e dignitari, no, egli volle e seppe rappresentare anche la “personificazione” del Figlio e dello Spirito santo, nonché del Signore Iddio.

Ad Arezzo, nutrite folle di turisti, ammirano da secoli il dipinto del Crocefisso. I particolari anatomici, la muscolatura, la proporzione delle misure, le espressioni del corpo, sofferente, dell’uomo, inchiodato sulla croce….. danno una drammaticità alla visone del superbo dipinto molto terrena, senza nulla togliere alal sacralità ed alla devozione, che tuttora traspare, da quel capolavoro, di carattere universale.

Attorno al 1270 Cimabue dipinse “La maestà”, che oggi si trova esposta al Louvre; nel dipinto impegna tutto il suo estro creativo, rappresentando la Madonna con tutte le sue carnali attitudini femminili, ancorché ricolme della Grazia, in quanto appare più che sospesa, anzi, seduta sul trono, avvolta in una tunica a pieghe sottili.

Nella Basilica di Assisi Cimabue dipinse, era il 1280, gli affreschi delle volte e delle sotto volte, oltre al coro. Gli evangelisti, storie della Vergine, scene dell’apocalisse, giudizio e crocifissione di Gesù, Storie di san Pietro, sono i titoli delle opere che si possono ammirare nella Basilica.

Questi capolavori, dipinti assieme all’affresco di San Francesco e gli Angeli, che si trova nella Cappella Inferiore, colpiscono da secoli le folle dei fedeli in preghiera, certamente per la sacralità degli eventi e per le esigenze dettate dalla fede, ma pure per l’aspetto umano e tipicamente corporale delle figure.

E’ dunque grande merito di questo artista l’aver saputo dare ai personaggi rappresentati, una intensa forza espressiva, pregna di valore drammatico e fisico, concetto completamente nuovo, e pure azzardato, in quei tempi.

I colori, le proporzioni, gli atteggiamenti, i particolari anatomici, come il rilievo delle vene sulla pelle o la muscolatura maschile. Hanno reso Cimabue un precursore, capace di saper esprimersi e di rappresentare toni della pittura, non soltanto catartici.

Altro capolavoro lasciatoci da Cimabue è “La Santa Trinità”, che può oggi essere ammirata a Firenze. Altre opere si trovano conservate a Bologna e a Pisa.

Cimabue morì a Pisa, nel 1302.