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Giovanni Bovio
Alberto Mario
Giovanni Conti
I Repubblicani nella Repubblica
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Bovio"Definirsi o sparire" Giovanni Bovio (Trani, 6 febbraio 1837 – Napoli, 15 aprile 1903) è stato un filosofo e politico italiano, sistematizzatore dell'ideologia repubblicana e deputato al Parlamento italiano. Autodidatta, pubblica nel 1864 Il Verbo Novello, un poema filosofico scritto con intonazione enfatica. Fra i suoi scritti si ricordano la Filosofia del diritto, il Sommario della storia del diritto in Italia, il Genio, gli Scritti filosofici e politici, la Dottrina dei partiti in Europa, i Discorsi. Bovio fu anche deputato alla Camera: nel 1876, con il subentrare della Sinistra costituzionale alla Destra, fu eletto nel collegio di Minervino Murge. Il suo atteggiamento, diversamente da quello dei suoi compagni che condividevano l'idea repubblicana, non fu incline all'astensionismo. Napoli fu la sua città di adozione, dove morì il 15 aprile 1903,  povero e incontaminato da facili ricchezze e abili furberie. Come ideologo repubblicano, Bovio ebbe il motto "definirsi o sparire": palesò insomma ai repubblicani l'esigenza urgente di un'impostazione non confusa e non settaria, di una chiara direzione che spinse poi i repubblicani a definirsi in partito di moderno tenore. Bovio stabilì per il Partito repubblicano nessi e prospettive nazionali ed europee. Egli considera la monarchia come l'attuale realtà italiana. Ne segue che la repubblica è utopia, e Bovio si dichiara utopista. Nel suo pensiero la monarchia cadrà, proprio quando dovrà risolvere il problema della libertà. Serve comunque un lungo periodo perché la situazione monarchica si deteriori. Colma evidentemente di determinismo, la sua filosofia si definiva come naturalismo matematico.

Differentemente dalla teoria socialista, Bovio riteneva che il nuovo Stato a venire avrebbe avuto una "forma storica", non potendo dimensionarsi unicamente sulla base di azioni economiche. Bovio introduceva dunque una concezione formale dello Stato, che si sforzò di divulgare anche presso i ceti operai.Bovio ebbe comunque anche l'esigenza di definirsi rispetto agli anarchici. La forma repubblicana, scrisse, è a metà strada fra la monarchia e l'anarchia, vale a dire fra l'ipertrofia dello Stato e la sua totale anarchica abolizione. Non a caso, quando l'anarchico Gaetano Bresci compì l'attentato contro Umberto I, il nostro filosofo invitò tutti gli anarchici a desistere dalla violenza. In sostanza, un'esagerazione utopistica tradotta in atti sanguinari (l'opera degli anarchici) avrebbe prodotto un rafforzamento reattivo dell'autorità costituita, allontanando proprio il momento dell'avvento della repubblica. Troviamo in lui un tentativo di superare l'idealismo della metafisica idealistica e insieme con essa l'approccio empirico del positivismo.

Fondamentalmente Bovio introdusse in Italia l'eco delle nuove correnti speculative nella filosofia del diritto. Abbiamo già messo in luce come il movimento repubblicano italiano abbia avuto in sorte di frantumarsi in più rivoli; l’avvento della Sinistra al governo aveva premiato la fazione collaborazionista, la quale pochi mesi dopo, se pur fortemente delusa dagli eventi, ancora sperava in un indebolimento della monarchia, se non addirittura in un “placido tramonto” come più volte venne scritto nei giornali e citato nei discorsi dei parlamentaristi nei molti comizi. La diatriba, però, si intensifica nel terreno della propaganda, aumenteranno i comizi nelle cittadine di periferia; nelle Marche, in Romagna, nel Lazio, in Sicilia vengono organizzate delle grandi manifestazioni popolari; accompagnati da “gloriosi cortei risorgimentali, in cui spiccavano bandiere verdi, nere e rosse, si tenevano convegni in favore della laicità della Scuola pubblica e del suffragio universale. Nel 1879, in occasione dell’attentato che Giovanni Passanante fallì contro il re Umberto I, si ebbe un risveglio generale di attività, un nuovo e vigoroso impulso di lotte, di discussioni e di comizi.


ALBERTO MARIO (n. Lendinara 1825 – m. Lendinara 1883)

Alberto Mario

Discendente da una nobile famiglia di origine ferrarese, stabilitasi da molto tempo a Lendinara, Alberto Mario è un giovane studente dell’Università di Padova, quando , l’ 8 febbraio 1848, partecipa attivamente alle manifestazioni patriottiche, tanto da essere costretto a riparare a Bologna, dove trova modo di unirsi alle truppe del Papato, inviate da Pio IX nelle prime avvisaglie della Prima Guerra d’Indipendenza.

 

Combatte contro gli austriaci a Bassano del Grappa, Treviso e Vicenza. Al termine della campagna militare ripara a Milano, dove ha modo di conoscere Mazzini e Garibaldi.

Negli anni che vanno dal 1849 al 1857, Mario soggiornò a lungo a Genova, assieme ad altri patrioti, in esilio.

Passati alcuni mesi nel carcere di sant’Andrea, a Genova, per aver partecipato a eventi rivoluzionari, tra l’altro miseramente falliti, Mario si trasferì a Londra, dove, nel 1858 sposò Jessie White, giornalista corrispondente del London Daily News. Assieme alla moglie giornalista intraprese alcuni viaggi negli Stati Uniti, dove ebbe modo di perorare la causa risorgimentale italiana.

Tornato in Italia, dopo aver passato qualche giorno in prigione, venne espulso dal Regno di Sardegna; riparò in Svizzera, a Lugano, dove già si trovavano Mazzini e Cattaneo. A Lugano Alberto Mario si accollò la direzione del periodico mazziniano "Pensiero e Azione".

Nel 1860, durante la campagna garibaldina in Sicilia e a Napoli, Alberto mario e la moglie riuscirono ad imbarcarsi con una spedizione capitanata da Medici, noto patriota garibaldino, e raggiunsero il "Generale"

Nel fulgore delle sue vittorie anti borboniche.

Era di convinzione un federalista, ovvero propugnava una federazione di stati liberali con l’obiettivo di abbattere le " satrapie burocratiche", come amava asserire, insite nella mentalità centralista italiana, allo scopo di realizzare una legislazione più articolata, adatta a garantire l’autogoverno di istituzioni decentrate come regioni e comuni. Durante l’impresa garibaldina Alberto Mario ebbe l’ingrato compito di reprimere in Calabria le rivolte dei contadini rimasti fedeli ai Borboni.

Nel 1862, con l’aiuto della moglie, Mario scrisse un volume dal titolo " La camicia rossa", che era un memoriale sulla Spedizione dei Mille, pubblicato in lingua inglese.

Nel 1866 partecipò attivamente alla campagna contro l’Austria, al comando di reparti di marinai, sorta di moderni marines impegnati contro gli imperiali sul Lago di Garda.

Nel 1867 era al seguito di Garibaldi, presente agli episodi di Monterotondo e Mentana, quando il Generale provò a prendersi la Roma papista.

Una volta fattasi l’unità si dedicò al giornalismo. Divenne direttore de La Provincia di Mantova dal 1872 al 1874; lo fu anche de la Rivista repubblicana nel biennio 1878- 1879 e de La Lega della Democrazia dal 1880 al 1883.

Dal 1862 al 1866, per motivi di salute, ma anche in quanto desidero di pace e tranquillità, prese residenza vicino a Firenze, in una villa a Bellosguardo, il cui nome rivela la bellezza naturale del luogo toscano.

Essendo già avvenuta l’annessione del Veneto al Regno d’Italia Alberto Mario tornò a Lendinara, dove morì il 2 giugno del 1883.

 

 

 

 


 

 

Giovanni ContiGli studi sulla storia del movimento repubblicano in Italia, consentiti, se pur poco aiutati durante gli ottanta anni di monarchia sabauda, le due guerre mondiali comprese, ebbero un momento di intensità solo con l’ingresso in politica del professore universitario, nonché giornalista, Giovanni Spadolini. Decine di volumi con la sua firma, centinaia di articoli di giornale  sono stati dedicati alla storia del movimento repubblicano mazziniano, ed anche di quello federalista o azionista, confermando la ricchezza e la vivacità delle argomentazioni. Dallo studioso fiorentino, eminente studioso e direttore di giornali, viene messo in risalto in questi suoi lavori, in gran parte pubblicati dall’editore fiorentino Le Monnier nei primi anni ottanta dello scorso secolo, ai quali rimandiamo chi volesse approfondire queste tracce, la complessità del dibattito politico di cui il repubblicanesimo italiano è sempre stato indiscusso protagonista; dibattito anche culturale, tenuto acceso per più di un secolo  dagli uomini migliori della democrazia laica post risorgimentale.  Noi ci sentiamo in obbligo di concentrare la nostra attenzione su alcune figure di particolare interesse, a cominciare da Giovanni Conti.
Nasce a Montegranaro, Marche, oggi provincia di Fermo, il 17 Novembre 1882. Nato da famiglia di origini modeste ( il padre era un artigiano), fin da giovanissimo si impegnò nelle file del Partito Repubblicano Italiano, che era stato costituito nel 1895. Con l’aiuto della famiglia e di altri parenti riuscì a proseguire gli studi fino alla laurea in giurisprudenza nel 1912, In quello stesso anno trovò i mezzi per recarsi a Roma ed
aprire uno studio di avvocato.  Per le doti e le qualità dimostrate entrò nella Direzione Nazionale del Partito, iniziando così una attività politica che lo vedrà fino alla fine sempre più protagonista  della politica nazionale.
Schieratosi con gli interventisti fece il suo dovere di soldato combattente, tornando dal fronte nel 1918 con il grado di sottotenente, guadagnato sul campo di battaglia.
Fu tra i fondatori e i redattori del neonato La Voce Repubblicana, quotidiano di cui assunse la direzione fino al 1922, chiuso dalla censura fascista. Si adoperò allora, indomito, dando alle stampe un altro periodico: “ Vigilia”. Fu anche eletto deputato per il Partito e nel parlamento si distinse per la critica al nascente regime.
A causa della sua forte opposizione al fascismo fu posto sotto controllo delle camice nere. Fatto decadere come parlamentare, nel 1926 divenne sorvegliato speciale sotto il diretto controllo del servizio segreto agli ordini di Mussolini, l’OVRA.  Verso il 1929 subì la radiazione dall’Albo professionale forense e si trovò costretto per vivere a trovare lavoretti di copisteria e dattilografia.
Caduto il fascismo e restaurata la democrazia venne subito ingaggiato dai Comitati di Liberazione Nazionale, con i quali collaborò fin da subito sia per il referendum, poi vinto, che istaurò la repubblica, che nella Consulta, dove si distinse per la stesura della carta Costituzionale. Nel 1948 divenne senatore.
Il Partito repubblicano Italiano e il suo organo ufficiale, La Voce Repubblicana, da sempre lo considerano una delle colonne portanti dell’intera storia nazionale.
Morì a Roma nel 1957.



Il 2 giugno 1946, sulle macerie sanguinanti di un’Italia lacerata e punita dalla Storia, i repubblicani italiani esultano per la nascita della Repubblica. Il 18 giugno 1946, alle ore 18, il Presidente della Corte di Cassazione dichiara a Montecitorio la nascita di questa forma istituzionale, per la quale i mazziniani si battevano dal 1831. Il dr. Enrico de Nicola ne fu il primo Presidente.
Alla Assemblea Costituente, che ebbe il compito di redigere la Costituzione repubblicana, i deputati del P.R.I. furono:  Azzi Arnaldo, Bellusci Giuseppe, Camagni Ludovico, Chiostergi Giuseppe, Conti Giovanni, Della Seta Ugo, De Mercurio Ugo, De Vita Francesco, Facchinetti Cipriano, Grisolia Girolamo, Macrelli Cino, Magrini Luciano, Martino Enrico, Mazzei Vincenzo, Natoli Aurelio, Pacciardi Randolfo, Paolucci Silvio, Perassi Tomaso, Santi Ettore, Sardiello Gaetano, Sforza Carlo, Spallicci Aldo, Zuccarini Oliviero, La Malfa Ugo, Parri Ferruccio.
Questo lavoro non ha la pretesa di essere un trattato,ne tanto meno una dissertazione storica tuttavia “Sentieri Repubblicani” cioè noi stessi e la nostra memoria, vuole precisare che tutti questi uomini venivano dall’antifascismo militante, chi subendone, come Conti, gravi conseguenze in patria, e chi, come Facchinetti e Pacciardi, che tornavano dalla militanza antifascista in esilio. Tutti quanti portarono un concreto contributo alla formulazione delle regole democratiche, contenute nella Costituzione appena varata, e più tardi, lavorando nella capitale e nelle periferie, questi uomini daranno l’esempio di rettitudine e di etica, ancor oggi necessari al Paese.  Quando nacquero i governi democristiani, il Partito repubblicano impegnò i suoi uomini migliori nelle pratiche ministeriali, dimostrando lungimiranza e competenza nel disbrigo degli incarichi loro assegnati. Così come, sparsi per l’Italia intera, decine di consiglieri e amministratori pubblici forniranno esempi di rettitudine morale, o di estremo sacrificio come il fiorentino Lando Conti, sul finire degli anni ottanta.
Siamo agli inizi degli  anni sessanta, allorquando si manifesta la frattura nel partito, tra le posizioni di Ugo La Malfa, noto economista proveniente dal mondo bancario, e Randolfo Pacciardi, che porterà alla espulsione di quest’ultimo e alla nascita del suo movimento presidenzialista. Causa della frattura fu la divergenza di opinione tra i due leader, l’uno, Ugo La Malfa, favorevole alla formazione di governi che includevano il Partito Socialista Italiano, purchè, a livello nazionale, rompesse con il P.C.I., e Randolfo Pacciardi, affatto propenso a portare Pietro Nenni ed i suoi compagni socialisti nella “stanza dei bottoni” come ebbe a dire nel suo discorso alla Camera del 1963, che gli costerà l’appartenenza al P.R.I., poi riavuta nel 1980.

 

Ugo La MalfaUgo La Malfa   nasce a Palermo il 13 gennaio 1903. Giovanissimo, studia al corso di Allievi Ufficiali; viene trovato in possesso di un giornale, definito dalle autorità fasciste – sovversivo – e quindi trasferito in un reggimento di punizione.  Siccome non rinuncia alle sue convinzioni, circa i soprusi del fascismo, passerà anche diversi mesi in carcere. Fin dal corso degli studi liceali era maturata in lui la validità di una politica italiana basata sulla liberaldemocrazia.
Lavora negli Uffici della Direzione Centrale    della Banca Commerciale, dove si distinse per la competenza e la capacità manageriale. Quando alla fine della guerra vengono costituiti i Comitati di Liberazione Nazionale lui entra a farne parte, come rappresentante del Partito d’Azione, assieme a Ferruccio Parri e Piero Calamandrei. Già nel 1946 questa formazione politica non riesce a trovare i voti per essere rappresentata democraticamente; questo fa si che personalità come lui, lo stesso Parri ed Oronzo Reale, siano accolti nel Partito Repubblicano Italiano. Nel 1965, con l’affermazione dei primi governi di centro sinistra di Moro e Fanfani, Ugo La Malfa diventa segretario nazionale del P.R.I. e ricopre anche incarichi di governo nel settore dell’economia e della finanza.
Verso la fine degli anni sessanta ,Ugo La Malfa, considerata positiva l’esperienza di centro sinistra, che hanno dato vita a governi composti da democristiani, liberali, socialdemocratici, repubblicani e socialisti, dai mass media indicati per brevità – pentapartito – arriva a tenere in considerazione prima l’appoggio esterno  e poi il coinvolgimento del Partito Comunista, iniziando una dialettica politica con Giorgio Amendola, Pietro Ingrao e Giorgio Napolitano.
La linea di una formazione democratica, di così ampio contenuto politico, utile come dicevano i fautori, ad allargare le basi della democrazia per il bene del Paese, fu brutalmente interrotta dalla tragica fine di Aldo Moro e l’avvento di Bettino Craxi, del quale Ugo La Malfa fu critico severo.
Nel  1979 fu incaricato di formare un nuovo governo, che doveva portare fresca linfa vitale al “pentapartito”, in evidente difficoltà per i contrasti tra i cattolici della DC e i laici, ma non riuscii a far coagulare intorno a se le forze sufficienti per avere la fiducia e dovette rimettere il mandato.
Il 26 marzo 1979 muore a Roma.

A Roma, in Via Sant’Anna, al numero civico 13, c’è la sede della F.U.L.M. ( Fondazione Ugo La Malfa,) sagacemente organizzata dal figlio Giorgio, pure lui leader nazionale del Partito Repubblicano. Chi lo desidera può consultarne il Sito, o recarvisi di persona, a visionare il voluminoso archivio che vi è custodito.


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Nel 1946 alle elezioni per la Camera dei Deputati della appena formata Repubblica Italiana, il P.R.I. raggiunge 1.003.007 voti, pari al 4,4% dei votanti effettivi; nel 1963 la percentuale scende drasticamente al 1,3%, dacchè i cattolici e i marxisti, impegnati nella guerra fredda, diranno che, una volta fatta la Repubblica, dei repubblicani non ci sia più bisogno.(*)
Eppure si avvalgono del loro contributo, chiamando al governo i suoi uomini più rappresentativi.
Nel 1968 la percentuale arriva al 2,0% e nel 1972 è del 2,9, con punte del 3% in Sicilia e del 3,9 in Romagna. Alle elezioni del 1976 i repubblicani ottengono un valido e confortante 3,1%; la percentuale cresce nel 1979 arrivando al 3,6%.


Corrisponde a verità asserire che l’esigenza primaria dei repubblicani italiani era costituire l’unità nazionale, dimostrata nei fatti nei moti rivoluzionari del 1821 e del 1831, con le successive giornate di Brescia, Milano e Venezia, culminate con la realizzazione del pensiero mazziniano ne La Repubblica Romana del 1849. Successivamente l’eroico sacrificio di Guegliemo Oberdan, di Fabio Filzi e di Cesare Battisti ne sanciranno il fulcro. Tuttavia è opportuno ribadire che lo stesso Mazzini fu il primo ad aprire la strada ai temi della politica moderna, con il suo “Doveri dell’Uomo” i cui primi capitoli sono dedicati a Dio e alla Legge. Il lavoro principe di Mazzini prosegue determinando verso chi i Doveri devono essere orientati: L’Umanità, la Patria e la Famiglia. Il pregevole trattato del profeta del repubblicanesimo italiano continua trattando dei Doveri verso se stessi. Tratta poi della donna e del fanciullo, degli operai e degli artigiani, dei ricchi e dei diseredati; infine chiosa dell’Educazione, del Progresso e della Questione economica.
Con un programma come questo magra figura fanno gli stolti che si azzardano a tale battuta, resa vana tutt’oggi, con il ricordare che la salvaguardia della cultura e dell’arte la si deve a Giovanni Spadolini e quella dell’Ambiente a Giovanni Galasso, nate durante gli anni ottanta del secolo scorso, e non certo per merito dell’Azione Cattolica o dei Centri Sociali. Vogliamo infine ricordare la senatrice Susanna Agnelli, tesserata P.R.I. Ministro della Repubblica e fondatore di Theleton.

Emerge nel Partito, a cui ha da poco aderito, la carismatica figura del professore universitario e direttore di giornale  Giovanni Spadolini, illustre intellettuale fiorentino. Nel 1981 diventa segretario nazionale del Partito e successivamente viene nominato Presidente del Consiglio, incarico che durerà dal 28 giugno del 1981 al 27 agosto 1982.

Giovanni SpadoliniQuello che più tardi diventerà famoso come “il Professore ” più che Senatore e Presidente, nasce a Firenze il 21 giugno 1925.
La ponderosa azione intellettuale e la profonda formazione del pensiero intellettuale, basata sulla cultura laica e democratica del nostro Risorgimento, sarà parte delle sue convinzioni fin dalla più tenera età. Nei primi anni ’50 appare la sua prima pubblicazione importante, storica e documentaristica: “ Il papato socialista”nella quale riesce a mettere bene in evidenza quelle parti del pensiero cattolico, assistenza ai bisogni e disponibilità verso i più deboli, che non configgono affatto con le tematiche dei socialisti, se non sul piano della concorrenza, pescando entrambe le dottrine sullo medesimo lago le identiche prede. Numerosi sono gli articoli di fondo su Il Resto del Carlino di Bologna e sul Corriere della Sera di Milano, nei quali manifesta la più vasta preparazione culturale sui nuovi temi d’attualità, dall’economia al sociale, dalla storia dell’arte all’ambiente, dall’europeismo al gossip. Di particolare rilevanza la collana di storia, letteratura ed economia intitolata: “ Gli uomini che fecero l’Italia” edito da TEA, del quale ancora sono in commercio copie che agevolmente si possono trovare. Convinto che una soluzione facilmente attuabile potesse essere quella in passato teorizzata da Pietro Gobetti, Giovanni Spadolini fu tenace propugnatore, ancor prima di scendere in politica, della alquanto difficile mediazione, se non tentata convivenza, tra laici, cattolici e marxisti. All’età di 25 anni era stato nominato professore di storia contemporanea all’Università degli Studi di Firenze, Direttore de Il Resto del Carlino dal 1955 al 1968 e de Il Corriere della Sera dal 1968 al 1972.
Nel 1972 Spadolini accetta l’invito di Ugo La Malfa, il quale aveva allontanato dal P.R.I. le tematiche mazziniane, giudicate fuori dal tempo, rappresentante da Pacciardi, e si presente candidato a Milano per il P.R.I. al Senato della Repubblica, dove viene eletto. Durante quella stessa legislatura viene nominato Presidente della Commissione della Pubblica Amministrazione, incarico svolto con sagacia e lungimiranza. Con un apposito decreto legge da lui voluto e realizzato dal governo presieduto da Aldo Moro nel 1974 nasce il Ministero dei Beni Culturali di cui assume il dicastero. Nel 1979 è il primo ministro della Pubblica istruzione non democristiano della storia italiana del dopoguerra, nel quinto governo di Giulio Andreotti. Insieme all’impegno politico prosegue alacremente quello intellettuale; nel 1976 è Presidente del consiglio di Amministrazione dell’Università Bocconi di Milano e nel 1980 fonda la Nuova Antologia, oggi “ Fondazione Spadolini – Nuova Antologia”,brillantemente gestita dal suo allievo prof. Cosimo Ceccuti a Pian de Giullari in Firenze.
Nella primavera del 1980 Randolfo Pacciardi, che ha superato gli ottanta anni, si reca alle Terme di Castrocaro, in Emilia, come è sua veterata abitudine. Li lo raggiungono alcuni componenti del Consiglio Nazionale del P.R.I. tra i quali Oscar Mammì di Roma, che gli propongono di tornare al Partito. Pacciardi è vecchio e stanco, il suo movimento presidenzialista non ha decollato nell’agone politico, vuoi per l’ostracismo dei tanti nemici, vuoi per alcuni errori commessi, da lui stesso e dai suoi, di tattica e di frequentazioni, di orgoglio e di ardore repubblicano.
Giovanni Spadolini accetta il ritorno del vecchio leone, che, di diritto, entra a far parte della Direzione Nazionale. Non manca quasi mai alle convocazioni, è lucido e coerente, puntiglioso e ostinato; i suoi interventi vengono pubblicati su La Voce Repubblicana, nelle periferie italiane, dalla Romagna alla Sicilia lo invitano e lo ospitano con rinnovato entusiasmo. Nel partito si discute delle sue teorie e del tanto deprecato presidenzialismo, il quale, aggiunto al rigore etico portato da Ugo La Malfa porta nel 1983 il P.R.I. alla percentuale del 5,9%. Giovanni Spadolini è l’artefice della pacificazione tra i mazziniani e gli economisti liberali, le due anime che da allora convivono nel Partito, mantenendo un confronto a volte aspro, ma civile e fruttuoso, sempre, riuscendo a conciliare le istanze in progetti e programmi concreti e condivisi. 
Spadolini, uomo irreprensibile e di alta statura morale, verrà positivamente ricordato, in questa difficile fase della vita politica italiana, riuscendo ad evitare possibili sbocchi autoritari e antidemocratici nel Paese. Diventa Presidente del Senato, ma nel 1994 non viene riconfermato.
Muore il 4 Agosto di quello stesso anno.