Indice
Sentieri repubblicani
Il seme Repubblicano
Giuseppe Mazzini
Giuseppe Garibaldi
L'eredità di Mazzini
Partito Repubblicano Italiano
Il P.R.I. in Parlamento: Gli uomini, i pensieri, le azioni
Randolfo Pacciardi
Casablanca
Pacciardi Parte II
Per una nuova Repubblica
Da Madrid a Madrid
Tutte le pagine

Nel 1975, pubblicato da Barulli, editore in Roma, venne alle stampe il libro “ Da Madrid a Madrid”.

L’autore del libro è Randolfo Pacciardi.

Il sergente Pacciardi, nato a Giuncarico, nella provincia di Grosseto nel 1899, ottenne per il suo ardimento, ben due medaglie d’argento ( venne segnalato per entrambe in oro, per il valore dimostrato in battaglia; ottenne l’argento solo in quanto repubblicano, inviso allo stato maggiore militare di formazione monarchica). Più tardi, da reduce, nella sua terra si distinse per le sue prese di posizione democratiche, lasciando scritto a più riprese sul periodico grossetano “Etruria Nuova”, agli inizi degli anni venti dello scorso secolo, la sua avversione alle protervie dei fascisti.
Venne chiamato poco dopo a Roma, dall’avvocato Giovanni Conti, figura eminente del repubblicanesimo risorgimentale italiano, il quale inserisce il giovane avvocato Pacciardi, come praticante, nel suo studio. Come reduce e decorato della “grande guerra” fonda, assieme al figlio di Cesare Battisti, Luigi, ed altri personaggi celebri l’organizzazione democratica “Italia Libera” alla quale aderiscono migliaia di giovani ex combattenti. Nell’agosto del 1923 viene ucciso ad Argenta, paese dell’Emilia, il prete Giovanni Minzoni, il quale, con la sua attività ed apostolato, era inviso al regime che si andava affermando.
Uno dei sicari, pentito o scontento, non lo sappiamo, si mise in contatto con l’avv. Conti, mostrando a ocostui la lettera del tribuno Italo Balbo, il quale invitava i fascisti locali, a “dare una memorabile lezione a quel prete”. Nel quotidiano del partito “ La Voce repubblicana” Giovanni Conti pubblicò la lettera di cui era venuto in possesso. Italo Balbo, sicuro della impunità, querelò il giornale ed il suo difensore. I giudici del tribunale di Roma, assolsero il quotidiano repubblicano ed il suo direttore, condannando, con un residuo d’orgoglio, il tribuno al pagamento delle spese processuali.
Qualche tempo dopo, un giorno di dicembre del 1926, Pacciardi, alle cinque del mattino, sentì dei forti colpi alla porta di casa. Viveva solo, a Roma, e l’unica cosa che pensò fu qyella che a quell’ora clienti dello studio legale non potevano essere e neppure alcuno tra i pochi amici. Svelo, aprì la finestra della cucina, saltando sul tetto e dileguandosi. Riuscì, così, a sfuggire alla cattura da parte dei militi in orbace. Raggiunse Grosseto, dove riuscì a sposarsi con Luigina. Infine riuscì a raggiungere il Trentino, dove lo aspettava la vedova Battisti, che lo aiutò a servirsi di alcuni contrabbandieri per raggiungere la Svizzera. Randolfo Pacciardi a Lugano divenne quasi un mito, tra l’episodio di Bassanini, con il suo volo su Milano e il fallito attentato al duce, con Luigi Delfini.  
“ La centrale di Lugano”, il bellissimo libro di Paolo Palma racconta quelle imprese. Le autorità svizzere di quel cantone si convinsero delle noie che Pacciardi recava, nello svolgimento degli affari con la vicina Italia, fino al punto di decretarne l’espulsione nel 1933. Da Lugano i coniugi Pacciardi raggiunsero Parigi. Nel 1936 Pacciardi ricevette una lettera, da Carlo Rosselli, leader del movimento politico “Giustizia e Libertà” , nella quale viene proposta la formazione di una legione italiana nelle brigate repubblicane spagnole, che contrastavano i fascisti del generale Franco. In Spagna, con i gradi di maggiore dell’esercito spagnolo repubblicano, Pacciardi comandò il Battaglione Garibaldi, composto da volontari italiani, assieme a tanti altri volontari europei provenienti da numerosi paesi dell’Europa, compresi francesi, tedeschi, greci e russi.
Le vicende di Pacciardi durante la guerra di Spagna sono lo spunto del volume uscito nel 1975. E’ da li che Pacciardi si racconta, dopo gli accadimenti del 1974, quando il giovane e rampante magistrato Luciano Violante gli getta addosso l’infamante accusa di tramare contro le istanze democratiche della repubblica italiana.
Di carattere sobrio, per quanto accanito fumatore, Pacciardi riesce a gestire con la consueta arguzia la tempesta che si abbatté su di lui e tutti gli aderenti alla Unione Democratica Nuova Repubblica, arrivando al 1978 con il ritiro del fascicolo giudiziario, senza arrivare ad alcun procedimento penale perché “il fatto non costituisce reato”. Prima da solo (aveva lasciato il Partito repubblicano fin dal 1964), poi assieme all’ambasciatore liberale Edgardo Sogno ( per questa vicenda tenuto ingiustamente il galera per diversi mesi), Pacciardi aveva organizzato in molte piazze d’Italia comizi, cui avevano partecipato decine di migliaia di cittadini, che propugnavano il metodo presidenzialista per l’elezione del capo dello stato, che sarebbe stato, al contempo, anche capo di governo.
L’accusa lo considerava un cospiratore, sodale all’estrema destra, quindi fascista anche lui, accusandolo di aver partecipato a Madrid ad alcune riunioni, preparatoria al presunto golpe. Il libro da Madrid a Madrid nasce per questo, dimostrando palesemente che l’autore, dopo aver lasciato la Spagna per le note divergenze con i comunisti, i quali comandavano alla legione Garibaldi di intervenire con compiti di polizia a Barcellona, per sedare tumulti irredenti del patrioti catalani,, a Madrid da allora non c’era più tornato, dopo il ritorno in Francia, la fuga a Casablanca, il tentativo in USA di mettere in piedi una legione di volontari italiani da affiancare alle truppe prossime allo sbarco in Normandia. “L’antifascismo italiano in America” di Paolo Palma racconta, con dovizia di particolari, quel lodevole tentativo, non arrivato in porto per l’aperta ostilità della Gran Bretagna e della Francia, le quali volevano che l’Italia post fascista pagasse comunque il fio di quel ventennio. Pacciardi alla Assemblea Costituente, Pacciardi politico, deputato e ministro, sostiene la richiesta di Ugo La Malfa che chiede di entrare a far parte del P.R.I. dopo la diaspora del Partito d’azione, venendo ripagato quasi vent’anni dopo con l’allontanamento dal partito.
Due anni dopo il proscioglimento dall’accusa di golpe, il partito repubblicano italiano, il cui segretario nazionale è divenuto il giornalista, scrittore e docente universitario Giovanni Spadolini, gli restituisce la tessera, inserendolo di diritto nella direzione nazionale. Fino al 1991, anno della morte, Pacciardi, senza la sua Luigina, morta anni prima, e senza figli costituisce per i repubblicani mazziniani italiani una delle luci più vivide della sapienza.

Ecco cosa scrive, nell’introduzione del volume: “ Da Madrid a Madrid”. ( Renato Traquandi www.sentierirepubblicani.it Gennaio 2015) Chi ha letto il primo volume “ Protagonisti grandi e piccoli” sa che ne avevo promesso un secondo, non riferendosi alle persone ma ai problemi italiani del mio tempo. Non esito a cominciare il volume con due discorsi che ho pronunciato a Madrid quando ero alla testa del battaglione Garibaldi, il primo per dare agli italiani che ascoltavano le radio straniere notizie di questo battaglione formato da profughi antifascisti di ogni corrente, il secondo immediatamente dopo la battaglia di Guadalajara che io diressi nella controffensiva vittoriosa. Il tono è drammatico come imponevano le circostanze, ma mi sembra anche oggi umano e sereno. Il libro finisce con la riproduzione di un articolo recente “ Cospirazione a Madrid”.
Dal 1937 al 1974 si svolge l’arco o la spirale della mia vita e mi illudo di credere che si tratti della vita onorevole di un combattente disinteressato che sposa con sincerità e con coraggio le cause che gli sembrano giuste e belle. Fra i miei discorsi d’esilio ne ho scelto uno che mi sembra significativo. La miseria e le difficoltà dei profughi li espone a tutte le tentazioni.. Io ho la coscienza di essere sempre stato indipendente e di non aver mai subìto pressioni e influenze da parte dei governi che mi ospitavano nei loro paesi. Nel 1933 fui espulso dalla Svizzera per azioni antifasciste che continuai malgrado precedenti ammonimenti e richiami.
In America con Toscanini, Salvemini, Borgese, La Piana, don Sturzo ho continuato la battaglia fondando il giornale “Italia libera” che si onorò della collaborazione di questi illustri personaggi. Quando ci sembrò che i governi alleati volessero ferire i nostri interessi nazionali non esitammo, Salvemini, don Sturzo ed io, contro lo stesso governo americano in difesa di Trieste e dei naturali confini del nostro paese. Pubblico il discorso da me pronunciato in una imponente manifestazione patriottica alla “ Carnegie Hall” anche per riabilitare i nostri esuli sempre sospettati di trafficare coi governi stranieri ai danni della patria. Ritornato dall’esilionel 1944, dopo la liberazione di Roma, ho pronunciato il mio primo discorso al teatro Adriano.
E’ una veemente requisitoria contro la monarchia. Cominciava la battaglia per il “referendum” istituzionale che la liquidò. In quel periodo ho parlato a tutti gli italiani in tutte le città.. Molti discorsi sono stati già raccolti in opuscoli da Milano a Genova, da Napoli a Palermo. In questo volume ne pubblico uno che pronuncia a Bologna dal balcone di palazzo d’Accursio, raccolto da Salvemini ne “L’Italia libera” di New York quando mi successe più autorevolmente alla direzione del giornale .
Il 9 febbraio 1945, dal balcone del Campidoglio, commemorai la repubblica mazziniana del 1849. Avrò ricordato quella data centinaia di volte. E’ una data memorabile per i repubblicani d’Italia. C’è Mazzini nelle giornate migliori della sua vita; ma alla vigilia della proclamazione della repubblica italiana una lacera bandiera innalzata nel Campidoglio era, per la folla festante che ascoltava il discorso, come una fiamma.

La repubblica fu. Il 16 giugno non commemoravo più. Inauguravo il grande evento. Il sogno della mia vita si realizzava. Attiro l’attenzione dei lettori su questo discorso. C’è certo l’ebbrezza della vittoria, ma c’è anche una superiore ricerca di unità nazionale, una mano tesa ai nemici della repubblica, “La repubblica” dicevo “sarà sarà davvero il regime della riconciliazione nazionale se i nostri avversari saranno capaci di anteporre la lealtà democratica e il superiore bene della Nazione alle passioni faziose. La stessa distinzione fra fascisti e antifascisti potrebbe fra poco nona vere più ragione di essere.” Promettevo costumi onesti e illibati. “ Con la sua dignità ed etica di cittadino riacquista la sua responsabilità individuale la sua responsabilità individuale e sociale, ma non si creda che la repubblica, sarà puro cambiamento formale. I problemi della giustizia sociale saranno decisamente affrontati nella libertà e al fine di garantire la libertà, non per sopprimerla.”
“Esclusi i criminali e i profittatori, che resteranno al bando della Nazione, noi che siamo repubblicani antichi e – permettetemi di dirlo – senza macchia, ci faremo propugnatori di una più vasta e radicale amnistia di quella che è stata testé annunciata”. Togliatti, allora ministro della Giustizia, quando fu violentemente attaccato per l’amnistia, disse che si era ispitao al mio discorso. Sarà vero, ma io dissi di escludere criminali e profittatori. Lui escluse i responsabili di “delitti particolarmente efferati”, cioè estese l’amnistia a tutti. Comunque, questo era lo spirito della vittoria repubblicana: la riconciliazione nazionale, la fine delle lotte passate, l’anno zero, una nuova vita. L’abbandono a queste illusioni era totale.
L’osservazione di Lamartine “quant’era bella la repubblica sotto l’impero” ci pareva scettica e empia. Io avevo sempre rifiutato di partecipare ai governi del CLN. Facchinetti e Macrelli vi rappresentarono nell’ultimo scorcio, il partito repubblicano, io no. Dicevo agli amici che dovevamo dare l’esempio di disinteresse, non agghindarsi di ciondoli e chincaglierie, che saremmo stati più forti nella funzione di padri nobili della nostra repubblica. Nella Costituente la mia azione non fu ne assidua ne brillante. Mi occupavo prevalentemente del partito repubblicano percorrendo tutta l’Italia in una costante azione di propaganda che alla mia coscienza sembrava un apostolato. Sapevo che fatta la repubblica bisognava fare gli italiani. Disgraziatamente la repubblica era nata male dopo una disfatta e l’occupazione straniera.
L’istituzione doveva meritarsi il favore del popolo. Avevo piena fiducia in Conti, Perassi, Zuccarini che partecipavano attivamente alla redazione della carta costituzionale. Volli io che della commissione ad hoc facesse parte anche De Vita che era favorevole alla repubblica presidenziale. Avevo io stesso quest’idea ( in ambienti culturali feci qualche conferenza sulle istituzioni americane), ma, come ho detto tante volte, prevalse in me il timore, dopo un regime personale, di dare troppa autorità a un uomo, ed ebbi torto. Conti e Perassi, secondo la tradizione repubblicana post-risorgimentale, pensavano a un tipo di repubblica simile a quello svizzero con ordinamento regionale, referendum, iniziative popolari e governi stabili. Mai la scuola repubblicana aveva preso per modello la repubblica parlamentare francese.
Cattaneo, Rensi, Ghisleri avevano insegnato nella Svizzera italiana e specialmente quest’ultimo, diventato il padre spirituale dei repubblicani moderni, aveva sempre acerbamente criticato il parlamentarismo. Quando Degasperi, divenuto capo del governo, ruppe con l’estrema sinistra socialista e comunista, invocò la mia partecipazione personale al governo e quella di Saragat offrendo a me e a lui la vicepresidenza del consiglio. Io avevo chiesto il Ministero degli Interni.
Degasperi mi offrì qualche cosa di simile ponendomi a capo di un comitato interministeriale per l’ordine pubblico. Il 18 aprile 1948 Degasperi stravinse le elezioni anche a nostro danno. Io ero realmente intenzionato di ritornare al partito e detti le dimissioni. Il presidente del consiglio mi invitò pubblicamente a ritirarle; lo fece con una lettera nella quale richiedeva la collaborazione del partito repubblicano, e mi offri il Ministero della Difesa.
E’ ora opinione generale che il quinquennio 1949 – 1953 fu il periodo migliore della nostra repubblica. Io non so fare molte cose insieme. La ricostruzione delle forze armate fu un impegno faticoso e esaltante che divorò tutte le energie del mio spirito. Non mi turbò la campagna che monarchici e fascisti scatenarono contro di me. Ero sempre dell’idea che bisognava dimenticare il passato, ma dimenticarlo tutti, non ricominciare l’urto delle fazioni che hanno sempre avvelenato la nostra storia. Dissi fermamente che la repubblica doveva essere generosa ma non debole e criticai “gli insulsi pedagoghi” che opponevano gli opuscoli alle bombe. Non alludevo a Benedetto Croce, ma i liberali lo cedettero e accettai, benché ministro, un pubblico e civile contraddittorio con Cocco-Ortu. La nostra massima preoccupazione in quegli anni era quella di liberarci dal peso della sconfitta, di superare le brutali condizioni del trattato di pace, di firmarlo per necessità, ma poi accantonarlo e stracciarlo. E’ viva nella mia memoria la reazione della destra contro la firma e la vivace polemica che Vittorio Emanuele Orlando fece contro Degasperi e anche contro di me. Credo anche oggi che avevamo ragione noi. Nel 1949 il governo era molto incerto circa l’adesione dell’Italia al patto atlantico. In realtà, tranne la Francia che teneva alla nostra adesione, non ricevevamo dagli alleati particolari sollecitazioni.
Alcuni governi anzi non erano favorevoli. Sforza, io, l’ambasciatore negli Stati Uniti Tarchiani, Ivan Matteo Lombardo, ritenevamo che l’adesione al patto atlantico fosse soprattutto una necessità italiana. Entrare in una grande alleanza da pari a pari, significava davvero sormontare la sconfitta, provvedere nel solo modo possibile allora, alla difesa nazionale, distruggere totalmente almeno le clausole militari del diktat, creare le premesse per risolvere il problema dei nostri confini orientali. Nel consiglio dei ministri ci si atteneva normalmente ai vari ordini del giorno ( vari provvedimenti in ogni settore) ma non facevamo discussioni politiche. Ordine del giorno o no, io ero fermamente deciso a porre la questione che mi stava a cuore: dovevamo partecipare alla alleanza atlantica. Ad uno ad uno tutti i ministri furono d’accordo con me, tranne Saragat che però non molto tempo dopo accederà alle tesi degli altri. Sinistre e destre unite scatenarono una campagna contro il governo culminata in un duro e prolungato ostruzionismo parlamentare.  
Degasperi, dopo la ratifica del trattato in Parlamento, mi pregò di andare a Parigi per incontrare Lèon Blum e invitarlo con tatto a influire su Nenni e i socialisti italiani perché ammorbidissero il loro atteggiamento. Ebbi con Lèon Blum un lungo e cordiale colloquio nella sua villetta nei dintorni di Parigi e naturalmente parlammo del patto atlantico e d’altro. Era un letterato, un po’ come Turati e la sua conversazione era piacevolissima. Gli strappai caute promesse ma non so se si mosse. I socialisti accettarono il patto atlantico soltanto quando ruppero il patto d’unità d’azione coi comunisti e entrarono nei governi di centro-sinistra. L’altra preoccupazione del governo che Degasperi sentiva in sommo grado era l’unità europea. Fra Adenauer e Schuman, Degasperi, che poteva parlare con loro in tedesco e ne diventò amico, era quello che sosteneva le posizioni più avanzate. Vedeva nella comunità europea di difesa un passo decisivo per l’integrazione europea, anche indipendentemente dall’unità politica. Io ritenevo invece che si dovesse prioritariamente, almeno delineare una istituzionale comunità politica europea.

“Il carbone e l’acciaio sono materie brute, gli scrissi, ma i soldati sono anime”. Debbono servire una Patria e una bandiera. Quando ottenne che nel trattato della CED ( Comunità Europea di Difesa) fosse incluso l’impegno di creare una patria europea con un potere dirigente, un Senato e una Camera dei popoli, ogni mia esitazione sparì. Sono molti i miei discorsi per l’unità europea alla Camera e fuori. In questo volume ne pubblico uno pronunciato con Gonella e Spinelli al Teatro Sistina di Roma alla presenza di Einaudi, allora presidente della repubblica. E’ noto che gli Stati Uniti, l’Inghilterra e la Francia, col patto cosiddetto “tripartito” assegnavano all’Italia tutto il territorio dello Stato libero di Trieste ( zona A e zona B). Nel gennaio del 1953 gli ambasciatori delle tre potenze ci avvertirono ufficialmente che si era creata una nuova situazione col distacco di Tito dal Cominform e ci comunicarono che avevano deciso di dare prestiti e armi alla Jugoslavia. Degasperi mi invitò ad andare a Washington per chiedere spiegazioni più dettagliate e per ottenere, se possibile, almeno un rinvio delle decisioni. Era il momento peggiore perché in America si svolgevano le elezioni presidenziali, quelle nelle quali fu eletto Eisnhower.
Dissi chiaramente che se si dimostrava che si potevano dare aiuti militari a una potenza estranea al patto atlantico in conflitto d’interessi con l’Italia che faceva parte dell’alleanza, noi ci riservavamo di fare le stesse cose. Citai l’esempio di Mossadeq ( Iran) e di Naguib ( Egitto) che non erano in conflitto con noi ma con l’Inghilterra nostra alleata. Ottenni un breve rinvio degli aiuti a Tito per pura cortesia. Allora dissi a Degasperi che, avendolo minacciato, dovevo fare il viaggio in Egitto. Degasperi non amava molto questi gesti. Me n’ero già accorto quando il generale Winterthon, governatore di Trieste, fece bastonare studenti e popolani che in quella città avevano manifestato per la sua italianità e poi avevano fatto un corteo in piazza dell’Unità. Slataper mi telegrafò informandomi dell’accaduto e io telegraficamente gli risposi che Trieste aveva resistito agli imperatori austriaci e non sarebbe stato certamente un qualsiasi Winterhton che l’avrebbe domata. Il telegramma fu pubblicato dai giornali.
Degasperi e Andreotti non gradirono questo gesto, Taviani si schierò dalla parte mia. Comunque mi feci invitare da Naguib attraverso l’addetto militare, e sul canale di Suez salutai con la bandiera italiana l’equipaggio della nave “Mirella” che aveva rotto il blocco inglese a Mossadeq. Essendo in Egitto mi recai a deporre una corona nel cimitero dei soldati caduti a El Alamein e vi pronunciai un discorso che si troverà nelle pagine del libro. Non ho invece riportato perché troppo tecnici , i discorsi che pronunziai alla Camera sui problemi della difesa. Nel 1953 il popolo respinse la legge elettorale con sistema maggioritario che anche i repubblicani ritenevano necessaria per la stabilità dei governi e per una migliore articolazione delle maggioranze. Degasperi stesso non ottenne la fiducia del Parlamento e morì non molto tempo dopo.  
Nel 1956, come deputato, parlai su bilancio della difesa,. Il discorso mi è sembrato degno di essere riprodotto. A una Camera ignara di queste cose e piuttosto sprovveduta dissi della prossima creazione dell’arma assoluta ( il missile intercontinentale) e dei satelliti. Poco dopo il mondo attonito apprese del leggendario viaggio dello Sputnik. La mia rottura coi comunisti era già avvenuta nella guerra di Spagna. Combattere il fascismo insieme coi comunisti non voleva dire essere comunisti o utile idiota dei comunisti, così come Rosselli, combattendo con gli anarchici, non era per questo diventato anarchico. La mia posizione ideologica era ben nota non soltanto ai comunisti italiani e a tutte le brigate internazionali ma anche agli istruttori sovietici. Finchè le forze repubblicane erano in posizione di resistenza quasi disperata, evidentemente non c’erano contrasti né si rimarcavano, nel battaglione, differenze politiche. C’era una perfetta fusione di spiriti, disciplina, unità di comando.
Debbo dire anzi che i combattenti comunisti rispettavano il comandante repubblicano, lo stimavano e gli volevano bene. Il primo “commissario politico” Roasio era un operaio intelligente, cooperava lealmente con me, e mi era molto utile. Le cose cambiarono in tutta la Spagna quando l’esercito repubblicano dispose di molte brigate a maggioranza organizzate dai comunisti e sotto l’influenza comunista. Si ricordi che la Francia e l’Inghilterra avevano proclamato il non intervento, mentre l’URSS era intervenuta con carri, istruttori, aerei, in favore dei repubblicani. Ricordai queste cose prima a Naguib e poi a Nasser, nel mio secondo viaggio in Egitto quando il paese dei Faraoni era invaso da tecnici, istruttori, esperti, agenti che seguono sempre le armi sovietiche. Quando l’esercito repubblicano spagnolo sperò di vincere era fatale che i comunisti pensassero al futuro politico della Spagna e tentassero di impadronirsi della rivoluzione.
Così vennero i conflitti con gli anarchici e con gli stessi comunisti trotskisti di obbedienza non moscovita che ebbero ripercussioni anche nel battaglione italiano, dato che io ero fermamente deciso a non immischiare il mio battaglione nelle lotte politiche interne. Non era facile, perché ero militare e si pretendeva che obbedissi. Fui obbligato a lasciare la Spagna in netto contrasto col comunismo internazionale. Nella lotta di liberazione, appena rientrato in Italia, sorpresi Conti sostenendo, in un articolo de “La Voce repubblicana” dal titolo “Ritorno”, la necessità di una “concentrazione repubblicana” senza esclusione e discriminazioni. A quei tempi i comunisti civettavano col re e con Badoglio e la lotta per la repubblica era asperrima come si vide col “referendum”” che fu vinto di stretta misura. Tornai allora nelle grazie dei comunisti pur non partecipando al CNL.
Presi anche allora posizioni di punta come penso dovesse fare un repubblicano, in un Paese che non aveva ancora coscienza repubblicana o l’aveva molto confusa. Ma andando al governo nel 1947, come vice presidente del Consiglio all’ordine pubblico, dovevo fronteggiare il pericolo comunista e assumendo il dicastero della Difesa nel 1948 dovevo salvaguardare le forze armate, come feci con energia, dalla penetrazione comunista. Così divenni un’altra volta la bestia nera dei comunisti e da uomo di avanguardia come ero stato sempre considerato, divenni spregevole “uomo di destra”.  

Dopo la morte di Stalin, l’URSS sembrò subire un processo di liberalizzazione. Tutti guardammo con speranza al “disgelo” come lo chiamo il mio amico Eherembourg che durante la guerra di Spagna nelle sue corrispondenze dal fronte sui giornali sovietici mi faceva arrossire definendomi “ affascinante”, così come nei giornali americani Hemingway mi definisce “ beautiful in action”. Le illusioni della liberalizzazione del comunismo già fallite in Cina dopo il famoso discorso di Mao sui “cento fiori” fallirono anche nell’URSS quando Krusciov inviò i carri armati sovietici in Ungheria a schiacciare la rivoluzione ungherese. Negli atti della Camera si possono trovare duri interventi miei a commento di questi avvenimenti. Mi sono limitato a riprodurre in questo volume un contrastato intervento a proposito della bestiale aggressione contro il popolo ungherese. Nel 1961 la mia posizione nel partito Repubblicano era già difficile. Da una parte l’ecatombe dei governi mi aveva convinto della irrazionalità e debolezza del sistema, dall’altra io ero decisamente contrario alle nuove esperienze che già si discutevano e si preparavano di “centro – sinistra”, cioè la partecipazione dei socialisti al governo.
Mentre a Genova fui l’oratore ufficiale della spedizione garibaldina da Quarto al Volturno alla presenza di Segni, presidente della Repubblica il governo mi ignorò completamente nel centenario dell’unità d’Italia che solennizzò nel ’61 forse perché per i cattolici era troppo imbarazzante solennizzarlo nel ’70 per il ricordo di Porta Pia e della fine, almeno formale, del potere temporale dei Papi. Un socialista prampoliano, presidente dell’Ente del Turismo di reggio Emilia, mi invitò a celebrare l’anniversario nella sua città che nella repubblica cisalpina aveva per prima innalzato il tricolore, e un console italiano a Lugano, su suggerimento di Missiroli, mi invitò a tornare nella città del mio esilio per parlare degli svizzeri nel Risorgimento italiano. I due discorsi stenografati sono in questo volume. Nel 1963 dopo lunga e tribolata gestazione, Moro varò con Nenni il primo governo di centro-sinistra. Socialdemocratici e repubblicani vi aderirono. Io consideravo la svolta deleteria per il nostro Paese.
Non partecipavo già più alle riunioni della direzione e dei consigli nazionali del PRI. Vi andai alla vigilia della formazione del nuovo governo per dichiarare apertamente respinto discipline di partito e che avrei preso posizione contro il governo. Altrettanto fecero Scelba e Gonella, con un’altra quarantina di deputati, nel gruppo parlamentare democristiano. Paolo Rossi aveva garantito conforme atteggiamento di nove deputati socialdemocratici. Una cinquantina di deputati che si ribellavano alla disciplina di partito, avrebbero certamente fatto abortire l’esperienza fin dall’inizio, ma avrebbero anche creato serie difficoltà al regime partitocratico. La Costituzione garantisce la libertà dei parlamentari come rappresentanti della Nazione e non dei partiti, ma è anche questa una disposizione costituzionale che il regime partitocratico non ha mai rispettato come non ne rispettato molte altre. Contro l’”indisciplina” dei democristiani insorse pubblicamente il Vaticano.
Se Scelba, Gonella e altre decine di deputati osavano ribellarsi al loro partito non potevano fare altrettanto contro l’autorità ecclesiastica, benché non si trattasse, a proposito di potere temporale, di materia di fede. “L’Osservatore romano” mise in ginocchio i democristiani e scoraggiò i socialdemocratici. Così rimasi solo a parlare e votare contro il governo. Avevo superato ogni limite in un regime che era nato dalle lotte per la libertà. Dopo il mio discorso fu immediatamente proposta la mia espulsione dal partito per “indisciplina”. Questo discorso di cui sono molto fiero, si può leggere in questo libro. La misura era colma anche per me. Non avevo più bisogno di approfondire le cause della disfunzione di questa repubblica, e da allora impegnai tutto me stesso nella battaglia per una repubblica migliore.

Fondai un movimento per la “Nuova Repubblica”, dapprima con un ambizioso rotocalco “Folla” e poi con un settimanale di più modesto formato ma certamente più battagliero: “Nuova Repubblica”. In questo libro ho raccolto alcuni dei miei discorsi e scritti che mi sembrano più significativi. Sono tornato all’ “Adriano” venti anni dopo per svelare il dramma di coscienza di un repubblicano deluso. Ho usato la tribuna parlamentare come una catapulta contro l’oligarchia partitocratica. Naturalmente mi sono occupato anche di problemi specifici, dall’agricoltura all’università, all’ordinamento regionale, alla politica estera. Ho sferzato il governo e il regime nell’aula parlamentare, nelle piazze, nel mio giornale, in altri giornali, senza mezzi termini con un ardore combattivo che mi ha fatto dimenticare la mia tarda età. Ho dato naturalmente più spazio in questo volume a questi scritti e discorsi, ma riguardando panoramicamente le testimonianze delle lunghe battaglie della mia vita vi trovo con soddisfazione una fondamentale coerenza e non ho nulla da rinnegare. Sono stato sempre nelle trincee della libertà. I miei nemici sono stati sempre i nemici della libertà. Non mi fa certo molto piacere di averne molti, ma non ho mai esistato a pestare nel mucchio senza contarli.  
Questo secondo volume comincia coi miei discorsi da Madrid e finisce dunque con una grottesca accusa di cospirazione a Madrid. Ma proprio questa ingiustizia, proprio questa offesa mi ha fatto scoprire folle di amici antichi e nuovi. La congiura del silenzio, l’isolamento, sono stati spezzati. Interessandosi della persona, sono in molti ad avere scoperto per la prima volta le idee. Hanno scoperto che io dicevo ciò che gli italiani, o una grande parte degli italiani, pensavano. Perciò mi sono deciso a stampare questo secondo volume, dopo “Protagonisti grandi e piccoli” nel quale riferivo dei contatti avuti con le tante persone di ogni certo ed incarico, famose e sconosciute, nei decenni della mia attività, lusingandomi che qualcuno sia invogliato ad approfondire i temi oltre i ristretti limiti consentiti a articoli e discorsi.

Mi lusingo anche che i giovani vi trovino un incitamento all’azione. In fondo ho la coscienza di aver lavorato per loro. Randolfo Pacciardi 1975 “ Da Madrid a Madrid” Copyright by BARULLI Editore Roma